giovedì 3 marzo 2011

SIMONE PEROLARI: DAI TURISTI ALLE PERSONALITA', UNA STRADA PER LA FOTOGRAFIA, di Katia Bianco

Come hai cominciato a fotografare? Cosa ti ha attratto?
Come mai hai deciso di emigrare a Parigi?

       
Ho cominciato a fotografare quasi per caso. Volevo fare un'esperienza fuori da Biella e da Torino, dove abitavo e cosi ho trovato un annuncio di un fotografo che cercava fotografi per villaggi turistici per la stagione estiva, ho risposto e dopo un colloquio informale sono partito quell'estate per fare il fotografo nei villaggi (a quel tempo avevo 22 anni).
Non sapendo nulla di fotografia e di come fotografare (non avevo una passione per la fotografia, per me era qualcosa che mi attirava per il solo fatto che montare un rullino era per me un'esperienza nuova).
Al villaggio, di notte mi veniva insegnato il funzionamento della macchina fotografica e di giorno venivo mandato nella corrida del villaggio per esercitarmi e lavorare. Dopo una settimana, il mio capo mi disse che sarebbe partito, che sarei rimasto solo una settimana e che poi sarebbe arrivato un altro fotografo per gestirmi e aiutarmi. Pensavo scherzasse invece parte, io rimango nel panico un attimo poi mi metto a riflettere e a lavorare.
Inizio, la settimana va bene, raddoppio l'incasso e continuo la stagione anche in un altro villaggio turistico. Questa e' stata la gavetta, una pratica incredibile, ogni giorno facevamo fuori circa 50 rullini.
Da li parto perchè non ho più un lavoro ed un po' perche fare il fotografo mi piace, ma non so come fare. Cerco un fotografo tra Torino e Milano per fare l'assistente, ma riniziano i casini, per trovarne uno (anche gratis) passa un anno e mezzo, tra telefonate e incontri con fotografi ogni giorno, ma da tutti sentivo la stessa risposta: non abbiamo bisogno, ed erano tempi buoni, adesso sarebbe la follia.
Dopo un anno e mezzo per caso vado da Mauro Raffini (fotografo professionista piemontese, importante) che mi riceve per sentire che volevo, lui aveva già un assistente, ma in quel periodo iniziava l'era X, quella del digitale e per fortuna in quei giorni gli avevano chiesto un lavoro proprio in digitale, di cui lui non sapeva molto e chiede a me se sapevo qualcosa di computer, non sapevo di digitale ma conoscevo i computer: mi prese per quel lavoro e poi mi tenne come assistente. Rimasi con lui da assistente per 5 anni, durante i quali mi ha insegnato il mestiere del fotografo.
Ho poi deciso di provare a cambiare aria perchè anche se già facevo il  fotografo non vedevo che le cose per me miglioravano e ho provato ad andare fuori. Ormai da Mauro avevo appreso molte cose ed era ora di tornare a camminare da solo. Scelsi Parigi, li conoscevo un fotografo amico, Paolo Verzone, che mi ha aiutato e mi ha dato dei consigli per muovermi a Parigi.






Quali sono state le soddisfazioni e le amarezze di questo mestiere?

Una soddisfazione e' stata la pubblicazione  di una mia foto per la campagna di Amnesty International sui bambini invisibili: una sola foto, ma molto d'effetto, che è stata utilizzata per molto tempo.
  

Qual è il tipo di fotografia che ti affascina di più?
Nelle tue foto c'è un uso predominante del colore che cosa pensi che aggiunga questa scelta alle tue foto?


Mi affascina il reportage in bianco e nero, quello vecchio, quello ancor fatto di pellicola e grana, quello che ora non si vede più purtroppo; prima di venire a vivere a Parigi (ormai sono qui da 3 anni e mezzo) fotografavo solo in bianco e nero a pellicola (per i miei lavori personali, gli altri in digitale), poi andavo nelle redazione dei giornali e sentivo sempre la solita storia: bello ma hai del colore?
Il problema e' che io non riuscivo a vedere le foto nella macchina se avevo un rullino a colori, assurdo, ma è realtà.
Dal mio arrivo a Parigi mi sono messo a usare quasi solo digitale ed è da quel momento che ho prodotto quasi unicamente foto a colori. Diciamo che l'uso del digitale mi ha fatto vedere le foto a colori, che con la pellicola vedevo solo il bianco e nero.






Osservando le fotografie c'è una predominanza dei ritratti. Questa forma è voluta? Credi che ti serva a entrare in contatto con quella persona?
Il momento dello scatto specialmente nei ritratti è un vero e proprio rapporto tra il fotografo e il soggetto. Come vivi questo rapporto e ci sono confini e coinvolgimenti diversi a seconda dei contesti?


I ritratti sono un lavoro commerciale, dal momento che preferisco il reportage, ma il mercato ti cataloga e per vivere si cerca di far diverse cose, di reportage sociale non si vive se non arrivi ad alti livelli e poi forse non basterebbe, allora faccio ritratti.
Mi piace comunque fare ritratti, e' strano fare un ritratto, perchè ti studi già prima la situazione o almeno te la immagini e poi cambia tutto luogo, persona ecc ecc.
Dipende sempre da chi ti trovi di fronte: normalmente anche i grossi personaggi che ho fotografato sono in generale stati gentili. Il problema di far ritratti è il tempo, perchè questi personaggi non hanno mai tempo, oppure anche se hanno tempo i loro addetti stampa te lo riducono.
A me piacerebbe seguire un personaggio tutta una giornata, così che possano venir fuori dei ritratti non posati e molto vari. Ma chi ti da questa possibilità?




Che cosa contiene un evento sportivo rispetto ad un altro tipo di evento da te raccontato?

Gli eventi sportivi mi interessano perchè mi interesso molto di  sport ed e' per questo che li seguo alla mia maniera: non si vendono facilmente ma cerco di trovare una chiave di lettura diversa, molte volte poco vendibile, ma personalmente più soddisfacente da vedere che le solite immagine fisse sullo sportivo ed il loro gesto atletico.





Osservando il reportage sull'Argentina mi sembra di capire che il tema è il riciclo. Come ti è venuta questa idea ?

Nel reportage sugli ex cartoneros in Argentina sono stati importanti i contatti ed una conoscenza.
Quando preparo un lavoro, un viaggio di lavoro, cerco di sapere il più possibile su cosa sto andando a fare. In quel caso mi ero preparato cercando tutto quello fatto su di loro e su come arrivare a loro per entrare direttamente nella situazione.
La cosa migliore è stata che non mi aspettavo di avere dal governo argentino una persona che mi accompagnasse dentro la "villa", favela argentina, per realizzare il mio reportage; nonostante questo contatto in questi posti ho trovato difficoltà, infatti manca una seconda parte, che spero di poter fare presto.





Hai una struttura narrativa che ripeti nei tuoi reportages?

No non ho una struttura fissa, di solito guardo quello che succede, l'ambiente che ho di fronte,  e cerco di conoscere la situazione e le persone: poi a seconda del contesto in cui mi trovo valuto prima di fotografare o tirar fuori la macchina fotografica,  perchè avere la macchina o scattare una foto a volte  è come avere una pistola.

Katia Bianco, antropologa





1 commento:

  1. Mi ha colpito la tua gavetta, il tuo primo approccio alla fotografia, sei stato bravo e coraggioso. Particolare la tua idea di commerciale, legata al ritratto, io ho un'altra visione del ritratto, sarebbe bello parlarne.

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