lunedì 13 dicembre 2010

NO BORDERS MAGAZINE


Su No Borders Magazine trovate l'intervista al collettivo Micro sul progetto Voices From Italy.
Un grazie a Maura Dettoni per il suo lavoro! 

mercoledì 24 novembre 2010

Vi raccontiamo l'Italia, Not Only Photography

Sul Blog Not Only Photography intervista doppia al collettivo Micro per il progetto Voices From Italy e al fotografo Emiliano Mancuso per Reportage Italia.
Un grazie a Eliseo Barbàra per il suo lavoro!

lunedì 22 novembre 2010

COMMONPLACE


E' online "commonplace".
Ci vediamo il prossimo mese con l'ultimo tema!

mercoledì 6 ottobre 2010

LA MIA PARTE DI MONDO. INTERVISTA A ELISABETTA COCIANI di Lucia Rinolfi

L.R: Non sei veneto se...

E.C: Non ti piace il vino! Sembra uno scherzo, in realtà trovo che il bicchiere di vino rivesta  grande importanza nella vita dei veneti, mi spiego meglio. I bar e le osterie sono il luogo di ritrovo per eccellenza, sono occasione di incontri, di discussioni, di divertimento e di passatempo per tutti, dai più giovani ai più anziani.


Un'istantanea che porti dentro di te del Veneto?

Torno da scuola e vedo mio padre sfrecciare in macchina, stranissimo a quella velocità, corro a casa e mia nonna mi dice che è nata mia sorella. Avevo 11 anni, il nome lo abbiamo scelto io e mio fratello: Anna.


  

e del Friuli?

Del Friuli ho pochissimi ricordi, ce ne siamo andati via quando avevo tre anni. Ho però un'immagine molto nitida: sono con Eva, la mia amichetta preferita, vestite da ballerine, in tutù, io verde, lei rosa. Balliamo. Eva studiava danza sul serio e si vedeva…io invece cicciottella e impedita, ma felicissima! Da qualche parte, a casa dei miei, ci deve essere una fotografia che ha immortalato quel momento. 


Come riesce la fotografia ad avvicinarti alla realtà, se lo fa?

Lo fa sicuramente perché racconto delle storie che sono reali e per farlo ascolto, osservo, cerco, conosco e infine dò una mia lettura della realtà.                                                                                                                                La fotografia mi ha aiutato moltissimo anche a superare in parte la mia timidezza perché ho imparato non solo a guardare ma anche a interagire con gli altri, per fotografare le persone è per me molto importante instaurare prima un contatto, una relazione. Ecco quindi che prima di un ritratto, se ho l’opportunità, lascio da parte la macchina fotografica e inizio a chiacchierare… 




Che cosa sai ora - che prima non sapevi - della tua regione e delle sue persone grazie al lavoro per Voices from Italy?

Il lavoro Voices from Italy mi è servito soprattutto per riflettere sul Veneto, mi ha aiutato a capire quale è il mio rapporto con questa regione,  è stato importante scegliere le foto che per me rappresentano il Veneto, voglio sottolineare questo aspetto, è il “mio Veneto”, certo non pretendo di rappresentare il Veneto per esempio con il ritratto di mia sorella, si tratta di  una lettura completamente personale.


Se tu non fossi nata in Friuli, cresciuta in Veneto e vivessi a Milano... quale parte del mondo credi ti apparterrebbe?

L'Istria, mio padre è di origine istriana, il mio cognome è stato italianizzato, i miei parenti che vivono ancora lì si chiamano Kocijančič. La famiglia dei miei nonni con la seconda guerra mondiale si è disgregata, chi è andato in Australia, chi in America, chi in Italia e chi è rimasto. Sono convinta che mio papà, nato per caso in Lombardia, si sia portato dietro questo vuoto, la sua terra d’origine, e io credo di avere ereditato questo sentimento, non mi sento né friulana, né veneta e nemmeno milanese.


Il viaggio che ti manca per capire da dove vieni

Sicuramente l’Europa dell’Est, partendo dalla ex Jugoslavia e arrivando in Russia.


Perché abbiamo bisogno di vedere il mondo attraverso un obiettivo?

Il perché non lo so, so che a me piace moltissimo, seleziono e fermo la mia parte di mondo, è soggettiva e personale. Fai fotografare la stessa cosa a due fotografi e avrai sicuramente due immagini diverse.




Perché hai scelto la fotografia?

Mi sono avvicinata alla fotografia un po' per caso, ai tempi dell'università il  fidanzato di allora mi regalò la mia prima macchina fotografica. Sempre in quel periodo, folgorante fu una mostra che vidi in Germania di August Sander: in quell’occasione capii che non avrei fatto l’architetto ma che volevo fare la fotografa. Il linguaggio fotografico era perfetto per me.  Sono sempre stata una persona attenta e curiosa, ho sempre avuto un grande spirito di osservazione, con la macchina fotografica riuscivo a documentare e a raccontare quello che mi colpiva. Diciamo anche che per me risulta molto più semplice comunicare con delle immagini piuttosto che con le parole scritte o parlate. 


Sarai una fotografa per sempre?

E chi lo può dire? Oggi ti potrei dire, sì, sarò una fotografa per sempre, ma magari arriverà il momento in cui metterò da parte la macchina fotografica per utilizzare un altro mezzo, credo comunque che non smetterò mai di documentare e raccontare storie.




Lucia Rinolfi, ricercatrice iconografica di Gente

lunedì 4 ottobre 2010

LANDSCAPE


E' online il quarto tema, landscape!

Il fotografo Milo Sciaky, dopo aver visto in anteprima le fotografie, ci scrive:

 "Le foto della nuova serie tematica di Voices mi sembrano quelle che meglio hanno risposto all’argomento della consegna. Nonostante il livello qualitativo delle immagini dei temi precedenti, forse a causa del persistente elemento umano rappresentabile in maniera infinitamente più varia che del solo paesaggio, avevo inizialmente mosso la critica che tutto sommato non sarebbe stato troppo complicato spostare le singole immagini da un tema all’altro senza che un utente qualsiasi si accorgesse dell’artificio. Avevo l’impressione che le foto delle tre serie: people, Habitat e work, fossero sostanzialmente troppo simili tra loro per dare l’impressione  che si proponessero di rappresentare dei concetti tra loro differenti. Ovviamente le difficoltà di organizzare il materiale proveniente da 20 regioni diverse sono belle grosse e il risultato dell’esperimento va letto, a parer mio, come l’intento non tanto rappresentativo della propria realtà territoriale da parte delle singole voci, con i cazzi loro e il tempo che possono dedicare al progetto, quanto come il coro di queste voci, fin’ora semplicemente allacciate fra loro, che con landscape hanno trovato il modo, spontaneo e ignaro delle scelte argomentativo/stilistiche delle altre voci, di imbroccare tutte insieme una sola nota e di intonarla in un canto piacevole e armonioso (ora piango), come se a scattarle sia stata un’unica sapiente mano o occhio o cervello che sia."

lunedì 20 settembre 2010

COSA FAI PER VIVERE ED ALTRE DOMANDE FILOSOFICHE A MASSIMO DI NONNO di Raffaele Vertaldi

R.V: La prima domanda è sempre la più difficile, per cui te ne faccio tre in una. Ok, cominciamo: dove sei in questo momento? Da dove vieni? E dove stai andando?

M.D.N: In questo momento mi trovo a Milano e faccio il turista. È venuto a trovarmi mio nipote Aberto e con lui andiamo in giro per la città semi deserta. Sto dedicando il mio tempo a lui, che si è impossessato anche della mia macchina fotografica.
La settimana scorsa sono stato a Venezia, che considero una città, anzi un'isola/città, meravigliosa. Da un anno a questa parte ci vado spesso perché sto lavorando ad un progetto che riguarda il tema dell'acqua, e poi, insieme ad altri tre fotografi e in collaborazione con l'Università Ca' Foscari ed il Centro Pace di Venezia, stiamo organizzando una mostra sul concetto di attesa legato all'immigrazione.
Dove sto andando? Tra un po' esco con Alberto e andiamo alla Pinacoteca di Brera. Venerdì partirò per il Molise per rivedere la mia famiglia e partecipare al compleanno di Andrea, l’altro nipote.


La mia in verità era una domanda un po' più filosofica, del genere chi siamo, quali sono le nostre origini, dove stiamo andando...

Bene, ora mi trovo nel mezzo del cammino (ammesso che la lunghezza della mia vita sarà nella media), questa è la certezza che ho rispetto a dove sono. Per il resto è difficile dirlo, guardandola ottimisticamente direi a buon punto. E non importa  se non c'è un punto dove arrivare.
D'altronde arrivo da punti diversi. Pensavo che avrei fatto l'odontotecnico per tutta la vita a Campobasso. Invece ora sono a Milano e dico che faccio il fotografo.
Dove sarò domani? L'altra sera passavo in zona Brera e c'erano le  cartomanti, mi sarei voluto fermare e scoprirlo. Mi dispiace per te ma non l'ho fatto. Credo nel caso ma penso anche che ognuno possa in qualche modo determinare il proprio destino. In  questo momento mi sembra di avere necessità di semplicità. Poco rumore e più cose concrete.


Tornando alla tua prima risposta, e a proposito di semplicità, silenzio e concretezza, la maggior parte dei tuoi lavori è incentrata sul tema dell'acqua (mancanza/presenza della): ti sei mai soffermato ad analizzarne le ragioni? Fa tutto parte di una sorta di panta rei più generale? È un argomento che influisce anche sul metodo con cui porti avanti i tuoi progetti fotografici? O è piuttosto il tuo modus operandi a spingerti verso un elemento così fluido ed in perenne mutamento? 

La ragione è semplice: siamo circondati dall'acqua. Siamo acqua. Oggi per esempio piove a dirotto. C'è acqua in tutte le cose che ci circondano anche in quelle che apparentemente non ne contengono: un pezzo di acciaio sarà stato  raffreddato con l'acqua, tutto quello che mangiamo è composto per la maggior parte di acqua o sono serviti litri d'acqua per ottenerlo. Troppo spesso ci dimentichiamo dell'importanza di questo elemento fondamentale per la nostra esistenza.
Mi occupo di acqua sia per sensibilizzare le persone sul tema -  preservare il nostro bene più prezioso credo sia una battaglia fondamentale, nella quale mi sento coinvolto quotidianamente, - sia per ragioni “estetiche”. M’interessa esplorarne i vari aspetti. Non solo denuncia, quindi, ma anche bellezza, pericolo, mutevolezza. Come dici tu, è un elemento in perenne mutamento, e quindi può essere raccontato in innumerevoli modi. L'acqua condiziona la nostra vita. Cerco di raccontarne tutte le sue forme e implicazioni, in qualche modo adattandomi alla sua mutevolezza. In una sorta d’inseguimento in cui a volte mi sembra di perdermi e restare indietro. Intendo dire che spesso trovare la modalità e la forma migliore per raccontare l'acqua può essere complesso, meglio farsi trasportare e seguirne il corso.
L'acqua è vita e per me parlarne è vitale.






Io ho sempre considerato la terra il mio elemento di elezione, è solo di recente che ho cominciato a pensare all'acqua come una possibile declinazione dell'idea di luogo. Ultimamente ho addirittura iniziato ad associarvi la parola “casa”. Se la pronuncio, tu a cosa pensi?

Beh, immergendoci in acqua riceviamo una sensazione piacevole, in fondo è stato il nostro primo luogo, la nostra prima casa.
Per me casa è il luogo dove sto bene. Dentro o fuori voglio sentirmi a mio agio con tutte le mie idiosincrasie. Ci sono posti dove mi sento a casa ma nei quali non vivrei mai. Il silenzio mi fa sentire accolto. Due settimane fa ero a Berlino in  mezzo ad una foresta, di fianco ad un lago. Mi sono sentito in pace, a casa, ma non potrei vivere in quella dimensione a lungo. La dimensione di nomade è quella che più mi appartiene. Credo che apparteniamo a più luoghi o che più luoghi ci appartengano.


Facendo un rapido ma efficace sondaggio è venuto fuori che non tutti si ricordano della tua regione se gli si chiede di elencare quelle italiane, (un po' come il settimo nano, che manca sempre all'appello). Ora quindi una domanda un po' sleale se fatta a chi si esprime per immagini, e cioè: tu come descriveresti il Molise?

Ci sono tornato in questi giorni, ma cerco di tenermi lontano da Campobasso, la città dove sono nato, e andare in giro per stradine un pò franate, dove è difficile incontrare qualcuno. Per raccontarti la mia regione preferisco un punto di osservazione "secondario": un piccolo belvedere dal quale puoi cogliere tutti i suoi confini. Il mare a est, le montagne dell'Abbruzzo a nord, il massiccio del Matese, che ci separa dalla Campania, ad ovest, e le colline a sud che confinano con la Puglia.
Ti accosti con la macchina al ciglio della strada, spegni il motore, e subito sei circondato dal silenzio. Il vento rende piacevole anche il sole che picchia. Ai lati della strada ci sono rovi pieni di more enormi e gustose, intorno colline coperte di boschi o campi coltivati a biada. L'aria è così pulita da farti scoppiare i polmoni.
Riprendi a percorrere la stradina tutta curve e ti imbatterai in un paese arroccato su un cucuzzolo, con una poiana che lo sorvola quasi a controllare il territorio circostante. Se lo attraversi la gente ti sembrerà sospettosa, ma se ti fermi a chiedere un'informazione scoprirai una gentilezza spontanea e genuina. Insomma un luogo a tratti ancora selvaggio, dove l'antropizzazione è relegata, per fortuna, ancora a poche aree.  A volte sembra davvero rimasto com'era al tempo dei Sanniti. E forse lo spirito di questo antico popolo ancora lo anima.






Una sorta di arcadia, insomma. E però osservando il ‘tuo’ Molise non può risultare che spontaneo, per quanto ovvio, un confronto con il lavoro di Walker Evans per la FSA. Volendo approfittare del paragone, credi che la fotografia abbia ancora il compito (e sia ancora in grado) di indagare la realtà? Quale pensi dovrebbe essere in questo senso il ruolo delle commissioni pubbliche? C’è ancora spazio per qualcosa che non sia la semplice affermazione della personalità del fotografo?

La fotografia svolge un ruolo sociale. In qualsiasi forma essa venga espressa, se all'interno ha un contenuto può scuotere le coscienze, comunicando emozioni, sensibilizzando sui temi intorno ai quali la nostra società dibatte. È cambiata molto dai tempi di Evans perchè non ha fatto altro che adeguarsi ai mutamenti del mondo. Ma proprio perchè la società muta continuamente, la fotografia ha l'obbligo di documentarne le trasformazioni. Un lavoro costante di registrazione continua nel tempo.
I committenti pubblici dovrebbero svolgere un ruolo fondamentale in quanto, attraverso l'uso non strumentale dell'immagine, possono registrare i mutamenti sociali e tentare efficacemente di guidarli. Sta poi alla coscienza del fotografo, e alla sua onestà, decidere se raccontare il mondo che lo circonda e del quale è parte, oppure se proiettare esclusivamente il proprio ego all'interno di una foto. Dovremmo contribuire al dibattito sulla società, non solo interpretando la realtà ma anche agendo quotidianamente nel rispetto del mondo circostante. Insomma più contenuto e meno effetti speciali.






Concordo e sottoscrivo. Un’ultima domanda solo apparentemente banale: cosa ti piacerebbe poter rispondere a chi da qui a dieci anni dovesse chiederti cosa fai per vivere?

Banalmente potrei rispondere che faccio un lavoro che mi piace molto: guardo quello che mi circonda. Mi piace perché ritengo che questo mi dia la possibilità di osservare il mondo da un'angolazione privilegiata. Rispetto ad altri lavori ho il vantaggio di poter indagare molteplici livelli della società, e non semplicemente da un punto di vista "teorico", ma essendo presente anche fisicamente. Per tornare a una risposta precedente è come essere su un colle dal quale puoi riuscire a vedere i confini che ti circondano.
E se da qui a dieci anni dovessi decidere di cambiare mestiere, spero sempre di continuare a dare il mio contributo alla società. Mi piacerebbe fare il cuoco (se non fosse un lavoro infernale). Perché cucinare bene è un modo per dare piacere agli altri.


Raffaele Vertaldi, photoeditor di IL - Intelligence in Lifestyle




lunedì 6 settembre 2010

ARIANNA SANESI: LA FOTOGRAFIA E' UN RAGAZZO CHE NON TI MOLLA MAI...di Danilo Deninotti

D.D: Chi è Arianna Sanesi e come mai è diventata fotografa? Voglio dire, è la risposta che davi già nei temi “Cosa voglio fare da grande” delle elementari, o è stata una folgorazione, una casualità, una scelta, una passione diventata lavoro?

A.S: Sul chi sono io, al momento ho idee piuttosto confuse e rischierei di dire fesserie. Di sicuro non mi basta il percorso fatto fin qui. La mia battuta è sempre stata “la fotografia è un ragazzo che non ti molla mai” (del resto paragono anche il mio rapporto con Milano a una storia d’amore), per cui presumo che sì, ci sia stato un innamoramento, così come le inevitabili crisi - del resto se ci pensi è tremenda l’idea di non potersi liberare di un fidanzato scomodo. Posso dire che sia stata una scelta che ha finito per intrappolarmi, forse. L’Arianna seienne voleva fare la domatrice di delfini, l’undicenne la guardia forestale.




Chi ti ha messo per la prima volta una macchina fotografica in mano? Rompevi le scatole come tutti i bambini ai tuoi genitori per fare tu le foto delle vacanze, o c'è stata una persona che ti ha introdotta nel mondo della fotografia e ti ha inculcato la passione?

La prima macchina seria, una Pentax K1000, me l’ha regalata mia madre quando avevo 15 anni. Qualche anno prima c’era stata un’amica di famiglia, Ivana, che mi aveva colpito perché appassionata di fotografia. Ma detto tutto ciò, credo piuttosto che il mio amore sia nato dal guardare le immagini sui giornali che avevo in casa, fin da piccolissima, piuttosto che dal farle. Le foto di famiglia, a giudicare dalla mia espressione perennemente imbronciata, erano soprattutto subite temo.


Che tipo di formazione hai seguito e quali sono stati, e sono, i tuoi modelli di riferimento? E che tipo di gavetta hai fatto?

Ho fatto casino (si può dire?) come in molti ambiti della mia vita: per cui mi sono incaponita a laurearmi in storia della fotografia per quanto non fosse un insegnamento che faceva parte della mia facoltà, ho fatto un corso all’Università Popolare di Prato, fatto l’assistente al Tpw (e devo dire che mi si è aperto un mondo, anche se ne ero e ne sono tuttora un’osservatrice esterna, un cane sciolto, come diceva un mio collega) e studiato al Bauer. Ma ho anche studiato altro: traduzione, insegnamento. Gavetta infinita, proprio nel senso che ancora non è finita. Smetto in questi giorni di fare l’assistente per un noto fotografo, e con questo sono riuscita a comprare la mia prima macchina di proprietà, fai tu. Il mio grande rimpianto è non aver studiato scienze naturali, l’aver vissuto la questione fotografia in maniera totalizzante. È stata un'ingenuità.


Qual è stato il tuo esordio, il tuo primo servizio? E l'ultimo? E nel mezzo, cosa è successo e quali sono stati i tuoi passi nel mondo della fotografia professionale (collaborazioni, richieste di servizi, proposte andate in porto e porte sbattute in faccia)?

Se per servizio si intende la prima cosa che ho finito, è stato un lavoro concettuale per il diploma al Bauer. Ho praticamente costretto una ventina di coppie a baciarsi davanti allo schermo in panne di un televisore, detto così fa ridere, ma il risultato era bello. Peccato che in seguito me ne sia dimenticata, di come si potesse fare fotografia anche così. Per cui per anni ho rincorso ambizioni da fotogiornalista senza grande successo e finalmente adesso ho smesso di rincorrere le cose. L’ultimo commissionato è stata una serie di ritratti di persone comuni per Vanity Fair, insieme alla mia socia di sempre, Elisabetta Cociani. Al momento mi sono messa a digiuno dal meccanismo ricerca-questua-dis/interesse perché stavo diventando matta. Magari le porte sbattessero, io trovo difficoltà anche solo a farmi aprire (leggi: rispondere alle mail)! Il discorso è: se non vado bene, amici come prima; ma se non ho nemmeno accesso all’esser vista con serietà, va beh... poi si sa, il mondo è pieno di fotografi, eccetera.


Che tipo di fotografia ti interessa e cerchi di fare? Sul tuo sito, il tuo portfolio è diviso in “esseri umani” e “storie” – è questo che fai, cercare e inseguire delle storie e fissare su pellicola delle immagini, dei momenti e dei volti che hanno qualcosa da raccontare a chi si troverà a guardare la foto?




Provo a far emozionare le persone, o farle pensare. Cerco di comunicare quello che è sospeso, invisibile. Di sicuro è una sfida. Mi interessa di più un certo tipo di fotografia lenta e riflessiva in questo momento, per quanto ammiri moltissimo chi fa foto più "veloci". Si potrebbe dire che gran parte del mio lavoro abbia natura documentaria. Bisogna capirsi sul significato che si dà alla parola “storie”: a volte le storie sono anche nella propria testa, e quelle sì che sono difficili da comunicare. Quando la fotografia scivola verso il concettuale, se non si è attenti e consapevoli, si rischia il ridicolo, o il cliché. Ritengo che con quella di carattere fotogiornalistico invece il rischio più grosso sia la noia, l’usura.


Quindi narrazione e story telling sono importanti per te in un linguaggio come quello fotografico?

Di sicuro. Ma lo storytelling è un pozzo da esplorare, il racconto umano è fatto di tante cose, a me la fotografia non basta, né quando la guardo, né quando la faccio. Credo fermamente che si debba  prima di tutto sapere (conoscere) molto altro per comunicare qualcosa che abbia una sostanza, e che  a volte servano altri mezzi e perché no, più persone.




Come nasce un tuo servizio? Hai delle tematiche che ti interessano, che preferisci, che ti ossessionano e che vuoi a tutti i costi raccontare? C'è un minimo comune denominatore che collega i tuoi lavori?

Il minimo comune denominatore... sono io. Mi ci sono voluti anni per venire a patti con questo, e riemergere di nuovo attraverso le foto che facevo. Curiosamente, o forse no, i miei “servizi” nascono da tutto fuorché dalla fotografia. Sono una spugna, in costante ascolto di quello che ho intorno: libri, articoli, conversazioni, musica, e tanta radio. A volte basta una frase e si avvia come una valanga dentro di me. Ma sono lentissima, per cui ci sono idee che cullo da anni e delle quali ancora non ho mai parlato con nessuno. E siccome sono discontinua, forse è discontinuo anche il mio lavoro.


Qual è il lavoro che consideri il migliore tra quelli che hai fatto, o quello a cui sei più legata?

Direi LU. Credo sia un nuovo punto di partenza per me come fotografa. È la prova costante che mi ricorda che non sono fotogiornalista, ma che posso raccontare le cose a modo mio. Stacca tutto il resto con una bella falcata, e va bene così. Quando farò il nuovo sito, sarà una delle poche cose che resterà in piedi. Oltretutto averlo messo in un libro mi ha aiutata a capire che fine volevo facesse. Prima di LU però c’è Yellow and Blue. Con quello mi sono detta: sei libera.




Quali sono le difficoltà del fare la fotografa? Con che cosa ci si scontra quotidianamente? Si riesce a campare di sola fotografia e a pagarci le bollette?

Personalmente non ci riesco, ma si può riuscire. Tralasciamo le lamentele, che tanto sono cose che sanno tutti, ma veramente tutti, se si ha un minimo di onestà intellettuale. Per quanto mi riguarda la fotografia è un’ossessione, una malattia, e questo è il bello e il brutto. Permea qualsiasi momento della mia vita. Ultimamente ho insegnato italiano agli stranieri, è stata una tale boccata d’aria che credo sarebbe una buona idea specializzarsi in quello, e lo farò. Poi si vedrà.


Parliamo del collettivo MICRO e del progetto Voices from ITALY, di cui sei co-fondatrice. Perché avete sentito il bisogno di creare un collettivo? E qual è lo scopo del progetto?

Quando ho scoperto il Fifty States Project, ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto fare la stessa cosa in Italia, e una volta tanto sono stata fulminea a contattare Pilkington. Non è certo la prima volta che con gli altri proviamo a mettere in piedi qualcosa sull’Italia, ma ogni volta si scontrava con difficoltà oggettive dovute all’organizzazione, la partecipazione, la comprensione. La formula di Pilkington mi è sembrata ideale, e lui ha avuto la generosità di darci l’ok immediatamente. Lo scopo ideale sarebbe quello di portare i fotografi italiani al confronto con i progetti fatti negli altri pesi, costringerli a scoprirsi con le loro forze e debolezze. Provare a presentare l’Italia in un altro modo. Di certo l’idea di base è fare qualcosa di internazionale.
MICRO nasce da premesse simili, io parlo per me: ho sempre sentito il bisogno di condivisone, ma è cosa rara. Ed è difficile. Non è un caso che Micro venga allo scoperto coinvolgendo altre diciassette persone. Voglio dire, avremmo anche potuto farlo tutto noi, ma non abbiamo voluto, non avrebbe avuto alcun senso (oltre alla considerazione ovvia che sarebbe stato diverso dagli altri, ma anche più gestibile). Io vedo MICRO come il quartier generale a cui fare metaforicamente ritorno, ovunque vada.





All'interno di Voices From Italy ti è toccata la Toscana, ovviamente perché sei toscana di nascita. Ci sono regioni italiane – penso al Friuli, al Piemonte, alla Basilicata – per cui l'appartenenza è radicale e radicata, ed è forte e viscerale anche per chi magari è andato poi ad abitare altrove, tu come la vivi la tua appartenenza regionale?

Domanda spinosa. Rischio di farmi ancora più nemici di quanti me ne sia già fatti col mio statement, che comunque non era negativo, ci tengo a dire. Partiamo dall’assunto che la Toscana a suo modo è un luogo comune: bella da morire, ricca, democratica, si mangia bene. Una delle frasi che si sentono di più è “Come si sta bene qui, non si sta bene da nessuna parte!” Diciamo che per me non è così, io sto bene anche altrove. Alcuni dei miei migliori amici sono lì, i miei invecchiano, e quindi ora ci torno più spesso rispetto a qualche anno fa. Ma la sensazione da cane sciolto rimane, e del resto non raccolgo pacche sulle spalle ogni volta che dico che abito a Milano, e che per giunta mi piace. Mi viene anche detto che nel mio essere caparbia, polemica, anticlericale, a tratti eccentrica, io sono toscanissima. È più che probabile. C’è una cosa che voglio dire e che non ho detto nello statement però, perché era intraducibile: quello che detesto di più è il cattocomunismo e quello che più mi manca è la schiacciata che fanno alcuni fornai di Prato.




Danilo Deninotti, lavora nel mondo della comunicazione

giovedì 12 agosto 2010

L'ARCHITETTURA DELL'ANIMA NEL PAESAGGIO DI CLAUDIO SABATINO di Chiara Caratti

La casa di Claudio e sua moglie Simona parla immediatamente della Campania: offrono cibo napoletano e in soggiorno è appesa un’enorme e preziosa veduta di Napoli di Gabriele Basilico.


C.C: Abiti a Milano da oltre dieci anni, ti mancano Pompei e Napoli?

C.S: Senz’altro. Sono i posti in cui sono vissuto per molti anni a cui sono molto legato. Ma, grazie a Milano, la mia vita è cambiata in meglio, perché è una città aperta, che offre molte possibilità e spunti. A me ha dato l’opportunità di incontrare e coltivare rapporti umani che mi hanno fatto crescere molto.


Strana quest’affermazione per un uomo del Sud. Milano è spesso vista come una città diffidente e chiusa.

Per me non è stato così. Certamente Napoli ha tante attrattive, basti pensare al clima e al cibo! Napoli però è anche una città dura e caotica. E’ viva, ma è un posto molto complesso in cui vivere.


Lo dimostri, infatti, nella tua foto della campionessa di pugilato.

Faccio una premessa: mi considero un fotografo di paesaggio, ma anche il ritratto è un tema che mi appartiene molto. Non mi piace ragionare a compartimenti stagni perchè siamo sempre nell’ambito della visione.
Riguardo a Marzia, sono stato subito colpito dalla dolcezza del suo sguardo, in contraddizione con il suo ruolo di campionessa mondiale di pugilato e in contrasto con la violenza che questo sport comporta. Lei è la rappresentazione di quanto sia difficile vivere a Napoli. La palestra è di suo padre ed è visibilmente scarna,  accessoriata dell’indispensabile. Lei è la dimostrazione di come si possa diventare se stessi nonostante questa pochezza di mezzi, portando il minimo possibile al suo massimo.


Mi dicevi che tu sei un fotografo di paesaggio. Quando hai capito di esserlo?

Mi sono laureato in architettura. Ho sempre desiderato fare l’architetto e ho sempre immaginato che da grande avrei fatto questo. E con gioia e passione ho studiato per diventarlo. La fotografia è subentrata proprio in questi anni, prima come necessità tecnica per esigenze di studio, poi per la passione per l’immagine che cresceva anche grazie ad Alberto Ferlenga, il docente con cui mi sono laureato, che era riuscito a creare intorno a sé un gruppo di studenti interessati a discipline diverse, tra cui cinema e fotografia. Molto importante è stato quindi l’incontro in quegli anni con altri fotografi con i quali ho condiviso i primi passi nel mondo della fotografia. In quella pseudo-factory si sono creati collegamenti molto interessanti per la mia formazione e la mia passione per l’architettura è quindi sfociata naturalmente nella fotografia.




Le tue foto riflettono quest’approccio apparentemente razionale: sono nitide, frontali, per nulla estetizzate. Spesso fanno parte di ricerche composte da foto seriali: stesso tipo di oggetto fotografico, rappresentato con lo stesso punto di vista e con la stessa tecnica. A te cosa emoziona di un paesaggio?

Mi emoziona il paesaggio della trasformazione, mi emoziona il paesaggio urbano quando si manifesta con la sua complessità e con le sue contraddizioni: le grandi metropoli come Las Vegas, Tokyo, Shangai… Mi attraggono la loro energia in continua trasformazione, dove il tempo e gli spazi del quotidiano di ognuno si sovrappongono creando abitudini e habitat diversi. All’opposto, mi emoziona il ‘paesaggio minimo’, quello poco disegnato, che è in periferia ma è comunque molto vicino al centro della città (per disegnato intendo che è poco disegnato urbanisticamente e quindi spontaneo). Il paesaggio del bordo della città, delle zone di confine. 





In senso più generale comunque, sono lontano dal tipo di fotografia che deve emozionare a tutti i costi e dev’essere sensazionale. Mi riconosco più nel fotografo che tenta di capire con un’indagine e che si annulla di fronte a ciò che ritrae, piuttosto che in un fotografo che scatta delle immagini che hanno la presunzione di spiegare agli altri ciò che è l’esperienza umana. Non credo neanche al fotoreporter che scatta cogliendo l’attimo decisivo, perché  credo di più nel valore del progetto fotografico: leggere e studiare i luoghi prima di andare a fotografarli, capire i temi da approfondire e svilupparne una serie mirata. Spesso ricomincio le mie ricerche fotografiche partendo da alcune immagini che ho scattato in passato e che funzionano da promemoria, perché contengono elementi interessanti che voglio analizzare meglio.
Ho quest’approccio per quasi tutti i miei progetti: declino la stessa modalità di lavoro su diversi oggetti. Proprio come fa un architetto, che sviluppa la sua metodologia progettuale ed estetica su luoghi differenti.


Quali per esempio?

Nella ‘Mano del Santo’ ho fotografato le statue votive della provincia di Napoli, tutte dallo stesso punto di vista: frontale, con ‘il santino’ al centro, con un chiaro riferimento alla fotografia tedesca.  In questo modo il fotografo si annulla portando l’attenzione sull’operazione concettuale. La Bellezza della foto diventa quindi secondaria rispetto all’importanza del progetto. Paradossalmente, avendo scelto questa impostazione, potrei chiedere a un’altra persona di scattare la foto! Volevo puntare l’attenzione sugli edifici che si svelano dietro al Santo, così che la statua votiva diventa un traguardo ideale per guardare il paesaggio sociale circostante.
In un altro progetto in cui ho ritratto invece luoghi archeologici, come Pompei, Baia e Bacoli, ho approfondito la relazione tra spazi archeologici e costruzioni recenti. E con lo stesso presupposto di metodo applicato nella ‘Mano del Santo’ ho cercato di evidenziare come il paesaggio moderno tenda a schiacciare e a soffocare quello antico.





Prima hai citato la bellezza di una fotografia. Per te, cos’è una bella foto?

Rispondo citando una riflessione di una figura determinante nella storia della fotografia che è Robert Adams: se la funzione dell'atto fotografico diventa quella di documentare la forma sottesa al caos apparente del reale, una bella fotografia è un’immagine capace di svelare la testarda bellezza dei luoghi, e di ricreare un nuovo ordine estetico capace di mettere in relazione il fotografo con il mondo circostante.


Ho scoperto che insegni fotografia e hai tenuto corsi in Brera, alla Naba, al Politecnico e in altre strutture. Quali sono le curiosità dei tuoi studenti?

La loro curiosità è spesso rivolta al metodo per costruire un linguaggio. Ed è una curiosità che posso soddisfare solo parzialmente perché ognuno di loro deve trovare la propria strada. Io posso solo trasmettere la mia tecnica, il mio metodo, ma mi devo fermare qui. Gli studenti il più delle volte affrontano questo percorso secondo una dinamica perfettamente in linea con i tempi di oggi: hanno la difficoltà di mettersi alla prova per sperimentarsi e conoscersi, per ottenere un risultato che si vedrà sul lungo termine. Dall’altro lato però, hanno un grande entusiasmo di cambiare la loro vita grazie alla fotografia, e questo mi gratifica molto.

Chiara Caratti, photoeditor di Cosmopolitan





martedì 10 agosto 2010

WORK!

Il sito è sempre più ricco, i fotografi stanno facendo sentire la loro voce.
In più, in molti ci stanno aiutando a intervistare i protagonisti di Voices: anche a loro va un sentito grazie.

lunedì 2 agosto 2010

SE TU FOSSI MICHELE PALAZZI di Sonja Fagioli

S:F: Voices from Italy, titolo di questi tempi  utopico, irrisorio...
Ci sono dei momenti in cui è meglio non parlare? Tu quando gridi? E quando taci?





M.P: Ormai (grazie a internet) chiunque può comunicare con un pubblico, ma contemporaneamente diventa molto più difficile trovare persone che parlano avendo qualcosa da dire.
Questo è uno dei motivi che mi fa apprezzare il silenzio.
Sopratutto nel fotogiornalismo la comunicazione è il passaggio finale di un lavoro di ricerca


Essere un fotografo è più una dannazione o un privilegio?  Farlo in Italia? Perché lo fai?




Ritengo questo mestiere uno dei lavori più liberi e stimolanti che si possano fare. Ma vivere facendo il fotografo, data la grande competizione e la presenza crescente di fotoamatori, è sempre più difficile. Il nostro paese sta attraversando una fase critica e singolare, una crisi sociale i cui sintomi sono evidenti, più nascoste le cause. Il lavoro del fotogiornalista è un tentativo di lettura e di analisi degli avvenimenti. Nel mio caso quello che mi ha portato a fare questo mestiere è semplicemente la curiosità.
La possibilità di conoscere realtà distanti da me e che non avrei mai potuto conoscere facendo un altro tipo di mestiere.


Dietro all'obiettivo ti senti protetto, guidato?




La macchina fotografica mi permette di trovarmi in luoghi nuovi, a contatto con persone diverse ma uguali a me, sicuramente mi dà un senso di protezione emotivo e dà anche uno scopo alla mia presenza in determinate situazioni, ma più di tutto mi permette di entrare il più possibile nell'intima realtà delle cose, mi guida verso la ricerca di una verità, che ovviamente non potrà essere mai una realtà assoluta, ma che sento come mia.


Riesci ad avvicinarti in punta di piedi e a strappare espressioni in sessantesimi e millesimi di secondo, cosa ti ferma cosa ti fa fare un passo in dietro?




Non è facile dirlo, sicuramente la prima cosa che mi chiedo prima di iniziare un progetto è il mio scopo, e se questo scopo può danneggiare le persone fotografate, cerco sempre di evitare la volgarità sia nelle foto sia nel mio comportamento. Non amo privare di dignità le persone che fotografo, purtroppo spesso può capitare di essere scorretti anche senza accorgersene.


Cosa vorresti non avere fotografato?

Spesso i rimpianti sui miei scatti sono in relazione all'utilizzo che ne viene fatto e ai compromessi che bisogna accettare per poter far diventare la passione un mestiere.


Hai mai la sensazione di déjà vu quando ritrai?

Probabilmente ogni mia foto potrebbe essere un déjà vu, anche quando io per primo non me ne rendo conto.
La mia personalità e il mio passato spesso interagiscono con la realtà che sto fotografando, ed è proprio questa interferenza che mi stimola a continuare la mia ricerca.


Mi dai i nomi di tre fotografi e li descrivi con un paio di aggettivi?

Sally Mann, eterna adolescente
Jessica Dimmock, disperata ricercatrice di verità
Leonie Purchas, folle e introspettiva
Non è una coincidenza che ho scelto tre donne (di cui due molto giovani).
Anche se sono meno numerose dei fotografi maschi riescono sempre ad emergere grazie alla loro estrema sensibilità e a uno sguardo sul mondo mai banale.


Mi definisci in poche parole di colori, immagini ecc. la tua esperienza scolastica dal nido all'accademia? Un guru?

Durante l'adolescenza ho cercato strade diverse dai miei coetanei. Scoprire la fotografia è stata una benedizione, mi ha insegnato a conoscermi ed a cercare sempre risposte personali in un percorso di vita in cui credere.
I miei maestri sono stati tanti, impossibile elencarli tutti. Frequentare la Scuola Romana di Fotografia è stato un enorme stimolo per me, confrontarmi con professori come Massimo Siragusa è stato sicuramente un privilegio, senza scordare il lungo periodo da assistente di Lorenzo Pesce a cui devo molto.


Nelle tue foto di persone respinte in luoghi caotici, l'osservatore risucchiato dal punto di fuga, ormeggia come una bolla nella livella, ci sente la leva di una bilancia e la forza di una bussola.




Quello che maniacalmente cerco è una verità dettata dai momenti intimi della vita, quei momenti in cui la solitudine oltre che malinconia può portare anche a una grande lucidità e consapevolezza. Ovviamente questa è una ricerca che non si potrà mai dire compiuta... Nel frattempo faccio il possibile per comprendere sapendo che le mie ricerche probabilmente non miglioreranno il mondo, ma forse potranno aiutarmi a continuare un percorso verso una maggiore consapevolezza.


Conosci la poesia di Cecco Angiolieri S'i' fosse foco, arderei 'l mondo?  Sognando: "Se tu fossi ....  faresti...."

Amo questa poesia, forse non c'è migliore risposta di quella data dallo stesso poeta...
Se dovessi farla mia, userei la metafora di Giorgio Gaber: "E allora va a finire che se fossi Dio, io mi ritirerei in campagna come ho fatto io..."
Forse se fossi Michele cercherei disperatamente di rimanere fedele a me stesso ed ai miei ideali... facile a dirsi...

Sonja Fagioli, ricercatrice iconografica di Gente

lunedì 19 luglio 2010

OGNI SCATTO E' UNA PICCOLA STORIA, IMMAGINI E PAROLE DI LORENZO GIGLIO di Paola Corapi

P.C: Ciao Lorenzo è un piacere conoscerti.
Mi racconti i tuoi inizi e il tuo percorso: come ti sei avvicinato alla fotografia?

L.G: Inizio a scattare le mie prime fotografie da bambino, compleanni e feste erano l’occasione per usare la macchina fotografica di mio padre, era davvero affascinante vedere il flash. Studio fotografia con una predilezione per il bianco e nero, non a caso passavo le mie giornate a scattare e le nottate a stampare. Inizio a lavorare in un’agenzia fotografica come account executive, mentre di sera frequento l’istituto R. Bauer. Raggiunta la specializzazione decido di cambiare vita e di fare il fotografo lasciandomi tutto alle spalle: lavoro, casa e fidanzata.


Navigando sul sito di Voices from Italy mi sono soffermata più volte sulla tua foto, quella stazione ferroviaria, quei ragazzi quasi in un’altra dimensione temporale, dove nasce l’idea del tuo progetto The Border? stai pensando o realizzando dei nuovi progetti? Quali?

The Border è un lavoro che sento molto vicino, l’intento è quello di cercare un legame tra le periferie e le persone che le vivono,  persone "non etichettabili", non riconoscibili, per tentare di ritrarle in luoghi a loro vicini tentando di raccontare ciò che questi evocano. Ho scelto le periferie in quanto apparentemente anonime per cercare di coglierne la peculiarità. Ogni scatto è una piccola storia, la coppia di  emigranti che si deve separare: lui ha trovato lavoro a  Milano e lei a Firenze; una psicologa che si occupa di assistenza domiciliare dei minori. Sono storie da “osservare” che vale la pena “raccontare”.





Inoltre sto realizzando un video docufoto fiction sui travellers irlandesi insieme ad altri due fotografi, il mio primo lavoro collettivo, da cui ho imparato l’importanza di lavorare anche in gruppo. “In questa foto puoi vedere un traveler con i suoi cavalli e puoi cogliere la contrapposizione tra la libertà di una corsa limitata da un’area circoscritta”.




Qual è il tuo legame con la Basilicata? le foto che descrivono questa regione cosa evocano?

Il mio legame con la Basilicata è molto forte, sono figlio di emigranti lucani. Durante l’infanzia ho passato i mesi delle vacanze estive dai nonni a Laurenzana PZ. Ero libero e l’unica regola da rispettare era l’ora del pranzo e della cena. Giocavo a nascondino, camminavo nei boschi, mi tuffavo nel fiume, giocavo a calcio. Una delle immagini più belle che mi porto dentro è il sorriso di mia mamma, che ho perso alcuni anni fa, i suoi occhi sereni e brillanti, un’immagine legata a quei luoghi e a quei momenti.


Quali fotografi del passato, o ancora in vita, hanno influenzato maggiormente il tuo modo di fotografare? E quali ammiri in modo particolare?

È difficile rispondere a questa domanda com’è difficile indicare con un solo nome il tipo di linguaggio fotografico che mi ha influenzato maggiormente. Trovare uno stile e identificarsi con esso è forse la parte più complessa da costruire, dinstinguersi con un punto di vista sul mondo è probabilmente un obiettivo che si raggiunge nel tempo, con l’esperienza e la sperimentazione. In ogni caso se devo pensare a un nome nella storia della fotografia penso a Luigi Ghiri.


Ti va di scegliere uno scatto dal tuo portfolio e di raccontarmi “quanto c’è di Lorenzo dentro”?

Volentieri. Si tratta di uno scatto prodotto per un lavoro accademico dal titolo “anima e carne” realizzato durante il periodo di studi alla Bauer.
Il tema che ho affrontato è quello della “mattanza del maiale”, l’ho realizzato in Basilicata, dove si pratica abitualmente. All’inizio ho scelto questa storia con l’obiettivo di documentarne l’usanza, ma seguendo passo per passo le persone nella pratica della mattanza, mi sono reso conto che non  stavo raccontando soltanto dei fatti, ma stavo entrando in contatto con la tradizione di un rito scandito da diversi momenti: accudimento nella crescita, accompagnamento alla morte e trasformazione in qualcosa di diverso, ma ancora utile. Sembra un paradosso ma la mattanza racchiude in sé una sorta di umanità che giustifica e rende sopportabile la morte del maiale stesso.
Forse è la tradizione mista alla compassione e all’umanità con cui si raggiunge uno scopo, direi che è questo l’aspetto in cui trovo una parte di me.




Paola Corapi, photoeditor di First


martedì 13 luglio 2010

COLLOQUIO CON TONINO SGRO' di Milo Sciaky


M.S: Tonino Sgrò… “Tonino” è il tuo nome o il diminutivo di qualcosa?

T.S:  di Antonino!


scusa la domanda, era solo per rendere più amichevole l’intervista, posso inserirla?

eh. Inseriscila


Perfetto. Tonino, recentemente il settimanale “D. di Repubblica” ha pubblicato il tuo lavoro “Trambusti”; un vero e proprio viaggio fotografico su tutte le linee di trasporto pubblico di Milano, la tua città di adozione, nel quale, attraverso un' analisi fluida e fotograficamente coinvolgente hai toccato vari temi caratterizzanti una metropoli: l’immigrazione, la periferia,  la caoticità, la religione, e gli immancabili cantieri, in una panoramica sulla solitudine dei passeggeri e dei passanti accomunati da una quasi totale assenza di relazione tra essi.
Tu chi eri? Un viaggiatore di passaggio o uno che resta? O più semplicemente un fotografo che salendo e scendendo dai mezzi cercava di cogliere qualcosa?

Io ero uno spettatore, comunque un passeggero, ma a differenza degli altri avevo una macchina fotografica e guardavo fuori dal finestrino perché sono pochissimi quelli che guardano davvero la città. Nessuno guarda la città. Vuoi perché sono stanchi alla fine della giornata di lavoro, vuoi perché sono già stressati prima ancora di cominciare.
Questo di “Trambusti” è il lavoro della vita.
Il mio scopo era di conoscere veramente la città e di capire i flussi che la governano. Io ti mostro la multi etnicità di una metropoli come Milano, non tanto attraverso i personaggi che fotografo, ma attraverso la sua architettura, cioè, l’identità dei luoghi verso cui queste persone sono destinate. Ho utilizzato i mezzi pubblici per dare un ordine canonico a questi flussi.
Alla fine se ci pensi la cosa che mi appartiene di più è la foto di strada, ma la faccio in movimento. Trasportato dal mezzo pubblico guardo la città, e lei mi si mostra, poi io colgo! Colgo quello che interessa a me naturalmente.
Con il lavoro su Milano ho realizzato quello che è il mio concetto di fotografia: quello del vedere, dell’essere colpito dalla realtà e quindi cercare di catturarla. E’ una lotta con il reale: lotti con la realtà di continuo, ogni tanto qualcosa ti colpisce come nella foto dei due ragazzi che si baciano attraverso una cassetta delle lettere in piazza Cavour, ecco! Quella serie di coincidenze che si creano, di te che passi e catturi quel gesto particolare! E’ l’essenza della fotografia. Il vero fotografo è quello che vede per davvero.




Come nasce l’idea di questo lavoro? 

L’idea nasce dal fatto che le metropoli sono il caos e l’unico elemento che conferisce ordine a questo caos, se ci pensi, è la mobilità. 
Le linee su cui ho viaggiato per realizzare il mio progetto sono come il filo d’Arianna e la città è come un labirinto. Per questo l’ho titolato “Trambusti”, una sorta di neologismo, dei trambusti lineari, quasi un ossimoro.
Io ho fatto tutte e quattro le stagioni, tutti gli orari. Io i mezzi li usavo, è vero, ma li usavo per fotografare.
Ho tentato di usare la macchina fotografica come se fosse in movimento su uno di quei carrelli che si utilizzano per le riprese cinematografiche, dei carrelli che si muovono anche loro su dei binari, mentre la città mi faceva da scenografia. I soggetti erano gli attori.
Ho anche giocato sulla costrizione imposta dalla fissità delle linee. Sarebbe stato diverso affrontare la città a piedi: avrei potuto deviare dal tragitto prefissato. Così invece era la città che mi si offriva nella maniera che desiderava. Era un po’ come se la scelta non fosse stata del tutto mia.




Tra i tuoi lavori il tema del movimento è quello più ricorrente. Mi riferisco alla continuazione di “Trambusti” che stai svolgendo a Torino, ma soprattutto al lavoro sulla statale Ionica. In entrambi questi lavori hai assunto un punto di vista distante, come a voler dire: “che c’è? Io sono qui buono e faccio solo qualche foto”, mentre poi, quando fotografi la “gente di Calabria”, l’obiettivo della tua macchina fotografica si spinge vicinissimo ai soggetti, quasi in un abbraccio nostalgico al tuo ritorno a casa. Visto che il progetto “voices from Italy” si basa sul concetto di territorio di appartenenza, come consideri il tuo rapporto con esso?

Nel lavoro sulla Calabria i ritratti sono stati fatti perchè volevo mostrare qualcosa di strano, di diverso dalla cultura imperante. C’è una foto, un ritratto di una ragazza che ha fatto un ex voto e che in una società come la nostra, basata sull’effimero, sarebbe un soggetto inconcepibile,  come lo sarebbero i “Battenti”, sui quali lavoro da 10 anni, che si “battono” , si auto flagellano durante la Pasqua e con i quali ho voluto rappresentare il modo in cui in quei luoghi la religione fa emergere un legame molto forte con la tradizione,  con la terra, da cui si capisce l’importanza dell’elemento antropologico che è un po’ alla base di tutti i miei lavori.






Per quanto riguarda il tema del ritorno, infatti, si, non ci avevo pensato… con “trambusti” ero effettivamente nascosto, ne emerge la natura voyeuristica del fotografo. 
A Torino invece c’è lo stupore della scoperta. E’ un approcio diverso, dovuto alla minore confidenza che ho con quella città. Una volta completato “trambusti” a Torino nessuno mi impedisce di replicarlo in un’altra città italiana, europea e così via.
La statale 106 invece è dove sono nato ed è una strada che è diventata come un Corso. Sarebbe impensabile che al nord una strada a lunga percorrenza trasformata in una via dello struscio…


E cosa sarebbe lo “struscio”?

Beh, una sorta di Corso Vittorio Emanuele dove tu, nel paesino, vai a passeggiare. La maggior parte delle piazze sono sulla Statale 106, poi accanto a quello mi sono soffermato sull’aspetto dell’attività commerciale, dove c’è gente che utilizza questa strada in un modo quasi anarchico: nessuno ha le licenze, ma si mette là e vende la sua merce.
E’ proprio questo il mio concetto di movimento. Cercare di non fare delle foto gratuite, ma lasciare che sia la realtà a cadermi addosso e nonostante questo utilizzare il movimento lasciando che sia lui a trascinarmi in un percorso. Solo quando qualcosa mi colpisce scatto la foto.





Tonino, tu per anni ti sei occupato a Milano di fotogiornalismo di attualità. Da un anno però hai scelto di dedicarti a tempo pieno all’insegnamento. Cosa insegni e a chi?

Insegno Lettere alle scuole medie.


Questa scelta ha per caso a che fare con il periodo di crisi che ha colpito il mondo dell’editoria o hai semplicemente colto un’opportunità che ti si è presentata?

No, no, assolutamente. Io insegnavo già, non era però più compatibile in termini di tempo con la professione di fotografo. Cosa è successo: io ho sempre lavorato occupandomi di fotografia anche in termini teorici e con una laurea avevo anche la possibilità di insegnare. Ho scelto di dedicarmici. 


La professione di insegnante ha fatto si che tu affrontassi la fotografia più come una passione disinteressata che come un lavoro vero e proprio? E, pensi che questa nuova condizione abbia giovato a un approcio meno frenetico e più produttivo in termini di idee nei confronti della tua produzione fotografica?

Mah, per me non esistono distinzioni di categoria. Penso che tutto possa essere trasformato in una grande immagine indipendentemente dal fatto che uno faccia o meno il fotografo a tempo pieno.
Insegnare è una cosa che mi piace, la fotografia è un punto fermo della mia vita.
C’è una sorta di luogo comune che  vuole il fotografo di cronaca incapace di essere anche autore. Secondo me non è vero.
Il fatto di insegnare mi ha certamente dato più tempo da dedicare ai miei progetti personali come quello sui tram. Una maggiore semplicità organizzativa del mio tempo.


Quindi tu fai l’insegnante. Ma ciò non ti impedisce di continuare a “spuntare fuori” in concomitanza di eventi di attualità  che abbiano una qualche rilevanza

I fotografi si distinguono soltanto tra quelli che vedono e quelli che non vedono. La realtà ti colpisce e se hai con te una macchina fotografica cogli questi eventi, che possono essere eventi per te, ma non esserlo per me. E’ soggettivo.


Mi ricordo che sbucasti dal nulla anche quando una statuetta del Duomo in miniatura colpì in piena faccia il Premier al termine di un comizio. Che cosa ci facevi li dietro al palco? Tu quella foto l’hai fatta. Gli altri no.

Ho fatto una foto storica.
Il fondamento del mio lavoro è sempre stato quello di dare un’impronta che fosse mia. In quel caso il concetto è molto semplice: avendo seguito Berlusconi per molto tempo so che le foto migliori si fanno dopo, quando lui saluta la gente. Poi vabbè, quella è una cosa che un po’ tutti hanno sperato, io l’ho fatta perché è successo mentre ero li. Ho seguito una linea, che è quella di cercare qualcosa che non fosse semplicemente uguale agli altri, è stata una questione di audacia la mia, una questione di perseveranza.


Pochi giorni dopo il colpaccio ci siamo incontrati nei pressi di casa tua e sotto braccio avevi parecchie copie della rivista “Panorama” sulla cui copertina campeggiava la tua foto di Silvio Berlusconi che si erge tra la folla con il volto insanguinato. Per chi erano tutte quelle riviste?

Le ho portate a casa in Calabria ovviamente! Le ho distribuite sulla Statale Ionica!
E’ un’opera d’arte quella!!!
Ah ah, dai, andiamo.


MILO SCIAKY lavora come fotografo free lance e si occupa di attualità per l' agenzia ANSA.