lunedì 17 ottobre 2011

SGUARDO CONTEMPORANEO


Segnaliamo su "SGUARDO CONTEMPORANEO" il bell'articolo di Valeria De Berardinis sul progetto Voices From Italy.

mercoledì 7 settembre 2011

VOICES FROM ITALY A FOTOLEGGENDO

Voices from Italy sarà proiettato a FotoLeggendo
sabato 8 ottobre 2011 alle 17.30 nella sala conferenze dell'ISA,
via del Commercio 13, Roma.
Vi aspettiamo!


sabato 16 aprile 2011

MICROCOSMO/MACROCOSMO: IL MONDO DI IVANO TRABALZA di Maura Dettoni

M.D: Ho visto che hai girato moltissimo per lavoro e allo stesso tempo hai fatto molto per la tua città. Com'è essere su una barca a pescare pesce in Mauritania e poco dopo a Spoleto, a fotografare la città?

I.T:  Trovo sia perfetto passare da una barca di pescatori mauritani a Spoleto per un lavoro con il Festival Dei Due Mondi. Fare sempre la stessa cosa dopo un po' mi annoia, cambiare spesso soggetto e finalità del lavoro a me aiuta tanto. Essendo un fotografo autodidatta ogni nuovo lavoro è una sfida con me stesso e mi aiuta  mettermi  costantemente alla prova. Ora per esempio sono appena tornato da Miami, dove ho realizzato un servizio di moda e tra una settimana andrò in un super carcere a fotografare dei detenuti che realizzano borse da vendere online. Cambiare così tanto lavori e luoghi mi da la possibilità di vedere realtà diverse e di conoscermi meglio: un pescatore della Mauritania mi trasmette delle sensazioni mentre un detenuto o una modella me ne danno altre; è questa una delle cose più bella del mio lavoro, conoscere me e gli altri.





Ho visto i numerosi lavori che hai svolto per e nella città di Spoleto, ci sono stata questa estate per la prima volta e mi è piaciuta molto, non ero mai stata in Umbria e in qualche modo me l'aspettavo completamente diversa da come l'ho trovata: fresca, viva e sopratutto incontaminata. Forse da un fotografo ci si aspetta che lavori in una grande città, mentre tu sei rimasto "fedele" alla tua città natale. Qual è la cosa che piu apprezzi della tua città e dell'Umbria?

Della mia città mi piace una cosa sopratutto: è piccola ma abbastanza conosciuta. Per esempio la prima volta che sono stato negli Stati Uniti quando mi chiedevano da quale parte dell'Italia venivo, rispondevo sempre “Spoleto vicino Roma” ma molti mi rispondevano "ah, Spoleto! La conosco per il Festiva Dei Due Mondi, ci sono stato...." e dire che io sono il fotografo ufficiale del Festival, cosa che ovviamente mi da grandissima soddisfazione.
Ho documentato i grossi cambiamenti come le scale mobili e i parcheggi sotterranei ed è una cosa che mi fa piacere perché so che quegli scatti diventeranno foto storiche di un periodo importante e di cambiamento della mia città.
Poi adoro tantissimo il clima, la montagna, il verde...non riuscirei mai a vivere in una grande città, sono un appassionato di arrampicata su roccia e di parapendio e  vivendo qui appena ho mezza giornata libera ne posso approfittare.
Quando capita di uscire ti conosci quasi con tutti e questa cosa a me piace.
Comunque ho la fortuna di fare un lavoro che mi permette di viaggiare e conoscere altre culture e altre città ma sono sempre più convinto che vivere in mezzo al verde è la mia dimensione, con i mezzi che ci sono adesso non c'è bisogno di vivere nelle grandi città per fare il fotografo.




Hai sicuramente avuto la possibilità di vedere tantissime realtà diverse, dall'Africa all'America. Qual è il posto che più ti porti dentro? E banalmente quello che invece meno ti ha dato?

Non mi sento di portare dentro un posto più di un altro, sicuramente l'Africa è il posto dove sono stato più volte (l'ultima volta in macchina Spoleto – Dakar, quasi 10.000 KM) sono stato in Senegal, Mauritania, Mali, Marocco e Sud Africa. Ma non perché in Africa ci sono stato più volte mi piace di più del Nepal o degli Stati Uniti.
Ognuno dei posti che ho visitato, sia per lavoro o semplicemente per fare delle foto, ha una sua cultura, terra ecc. a me piace questo: vedere e conoscere tutto quello che si può.




Mi hai detto che sei un fotografo autodidatta, come ti sei avvicianto alla fotografia e come sei arrivato fino a qua?

Si, sono autodidatta e ancora devo fare tanta strada per essere un bravo fotografo - sempre se mai lo diventerò..
Penso di essermi  avvicinato alla fotografia nel modo più classico: mio padre aveva una Nikon FE con un 50mm che non usava più, avevo 20 anni e da li mi è presa la curiosità di imparare ad usarla. Qualche mio amico mi ha spiegato un po' di cose e in più ho letto un manuale di fotografia.
Ho poi iniziato a collaborare per un piccolo studio a Spoleto  e nel frattempo ero un operaio turnista in una fabbrica, prima ancora ero muratore e prima ancora idraulico...sì, ho iniziato a lavorare prestissimo, avevo solo 16 anni.
A 25 anni finalmente ho preso coraggio e mi sono detto “voglio provare a fare una cosa che mi piace fare”, così mi sono licenziato, perché in fabbrica davvero faticavo a lavorare.
Ho trovato una storia da raccontare "Le vie del pesce" ho cercato i contatti e sono partito e da lì altre storie, molte le ho pubblicate in qualche settimanale mentre altre sono rimaste nel cassetto.
Non riesco a vivere solo di reportage e dunque mi sono buttato nel commerciale: matrimoni, moda, corporate, ecc. ma sempre cercando di mantenere il mio stile reportagistico e non abbandonando mai i miei progetti.




Cosa ti aspettavi da Voices from Italy quando ti hanno chiesto di collaborare? Cosa ne pensi ora del risultato, dell'intero progetto?

Quando mi hanno contattato per collaborare con Voicec from Italy sinceramente non mi ero dato delle aspettative, mi è piaciuta l'idea e ho accettato. Adesso che riguardo tutto il lavoro finito è interessante. Ammiro molto tutto il lavoro fatto dai  ragazzi di MICRO.


Come hai affrontato i diversi temi? quale ti è stato piu semplice affrontare? Quali "storie" ci sono dietro?

I diversi temi li ho sviluppati sopratutto utilizzando materiali che già avevo,  per i temi “Work” e “People” sono stato sicuramente facilitato dal fatto che sono temi che ho affrontato molto spesso e che a me stanno molto a cuore.



Maura Dettoni si occupa di catalogazione fotografica e lavora in una biblioteca

venerdì 15 aprile 2011

VOICES FROM ITALY IN AREA PERGOLESI

Il 9 Marzo 2011 è stato presentato Voices From Italy a Milano, tante persone, tanti amici, una bellissima atmosfera. Collaborazione di persone in gamba e qui ringraziamo Domenico Stranieri, Gianmaria Carrara, Alberto Sala, Alessia Candita e Stefano Serra. Grazie a tutti per l'interesse, il sostegno, la prova che si può ancora fare fotografia in un modo serio e bello.

Ecco il video di Stefano Serra

http://www.youtube.com/watch?v=mDP23niAq80

...e alcune fotografie della serata (© Arianna Sanesi e Stefano Serra)










sabato 26 marzo 2011

"FUORI MISURA": IL RAPPORTO UOMO-AMBIENTE NELLA FOTOGRAFIA DI CLAUDIA CORRENT, di Edoardo Frittoli

E.F: Rapporto uomo territorio in cui è l’ambiente a prevalere, mentre l’elemento umano sembra quasi una parte del territorio stesso, un “dettaglio”. E’ vero?

C.C: Si sicuramente! In alcune foto voglio che sia l'ambiente a essere il punto principale della scena, anche se l'elemento umano rimane comunque e deve rimanere.




Dalle tue immagini si direbbe che la crescita e la trasformazione di certi spazi urbani di periferia sembrano addirittura avere soffocato il ruolo primario della popolazione, diventando il territorio stesso l’elemento principale delle tue fotografie.

Credo che ci sia un problema di disconoscimento tra l'uomo e l'ambiente in cui vive.
Mi spiego: non c'è neanche a Bolzano, città definita ecocompatibile , una partecipazione attiva nel pensare e costruire certe periferie. Non parlo di antipaesaggi, ma di scontro tra persone e cose, una non comprensione del territorio che si abita.
Quindi quello che rimane, alla fine, sono le strutture, le case e i topoi  classici dell'architettura. Le persone in effetti scompaiono, diventando piccole e non è un caso.



Quanto incide nella scelta dei soggetti la componente multietnica e multiculturale?

Vengo da una terra che per eccellenza è multiculturale,  lavoro a contatto con  ragazzi di diverse regioni del mondo come educatore in un centro giovani, e quindi l'incontro tra lingue, persone e  culture mi appartiene. Raccontare le persone è raccontare quel pezzo di mondo e quindi mi interessano i ritratti proprio per questo.


Sei stata direttamente influenzata  dal dualismo linguistico e culturale della tua regione?

Si sicuramente! É impossibile non rimanere coinvolti dal dualismo vivendo in Alto Adige!
Tutto è separato, dai cartelli italiani e cartelli tedeschi nelle strade di montagna, alle scuole divise a seconda del gruppo linguistico e così via.
I 150 anni di Unità italiana sono stati in questi giorni motivo di discussione tra la popolazione italiana e tedesca, quindi l'Alto Adige è fortemente caratterizzato da questo. Ma d'altro canto il discorso dell'identità non è mai assolutamente dato e questa è la particolarità di questa regione.




Le espressioni  rilassate nei volti delle famiglie ritratte nei dittici del quartiere Firmian lasciano intravedere una speranza di un’integrazione futura?

Mi auguro di si! Intervistando  le persone è emerso che oltre a  dei disagi che riguardano scelte provinciali  (troppe famiglie, mancanza di strutture) sono contenti di vivere in un nuovo quartiere e in nuove case e sono fiduciosi che nel tempo questo tipo di disagi verranno sistemati.
Bolzano oltretutto è una città piccola e ricca, Firmian non è assolutamente paragonabile a altre periferie italiane. Qui abbiamo un controllo sul disagio e contributi che spaziano dalla casa (affittata o comprata) a contributi di disoccupazione e  del minimo vitale.
Ci vuole solo tempo e altri servizi sono già in fase di progettazione.
Firmian è interessante anche per questo: una realtà che rispecchia la regione.
La divisione si ritrova in un quartiere multietnico e vario. Anche se da questo tipo di dialettica può emergere forse una coesione e  una riappropriazione del paesaggio.




Nel tuo portfolio di immagini di viaggio, la prospettiva sembra cambiare: dall’indagine socio-culturale ad un’attenzione al dettaglio con un tocco ironico “kitsch” che può ricordare Martin Parr.
Due stili e due anime della stessa autrice?


Direi di si, dipende da quello che mi interessa di volta in volta.
Adoro l'ironia di Parr nell'analizzare i costumi e la società e il rapporto delle persone con il tempo libero, le vacanze e altro. Cerco di riprodurre quando riesco un tipo di sguardo similare.
Dall'altra però mi interessa anche uno sguardo più attento alle trasformazioni sociali e culturali e quindi un'indagine che vada verso questa direzione.


Edoardo Frittoli, photoeditor di Panorama Economy

martedì 22 marzo 2011

FABRIZIO GIRALDI: INTERVISTA A UN DIVORATORE DELLA VISIONE, di Lorenza Orlando

L.O: Sono circa otto mesi che dobbiamo fare questa intervista e non ci riusciamo ... hai lavorato molto nell'ultimo anno?

F.G: Troppi mesi per rispondere a qualche domanda! Il 2010 è stato clemente, ho fatto più di quanto mi aspettassi, mi sono spostato molto per lavoro anche in paesi che non speravo, vedi Giappone e nell’ultimo periodo India, portando a casa molto materiale, e molto materiale per me vuol dire molto esercizio.


Conosci nella rivista FOAM la rubrica "on my mind": viene chiesto a vari curatori, galleristi, direttori di agenzia, editori di descrivere la fotografia che hanno più spesso avuto in mente nell'ultimo periodo. La rivolgo a te.

FOAM, rivista che ammiro moltissimo per i suoi contenuti e per la cura che dimostrano nell’accostare immagine e grafica, quindi come potrai capire da questa introduzione conosco la rubrica ‘on my mind'.
Gyorgy Kepes dedicò un libro alla “grammatica e sintassi della visione”, cito questa frase perchè sono un grande ‘divoratore della visione’, oltre a guardare ed editare le mie immagini analizzo quotidianamente quelle degli altri per sviluppare una sorta di critica visiva, per essere severo con i miei lavori e capire l’immagine contemporanea.
Ciononostante però spesso le immagini più ricorrenti nella mia mente sono quelle dei quadri ottocenteschi, dove composizione, luci e forme sono così ben pensate e calibrate che non serve la penna rossa per evidenziare l’errore.. non c’è!




Quali magazine di fotografia leggi? Quali ti piacciono? Quando li leggi?

Non sono un gran lettore ma amo ‘leggere’ immagini, quindi da ogni luogo che visito porto via con me magazine fotografici, li ritengo uno sguardo più ampio sul mondo dell’immagine a differenza dei libri monografici.
Nelle cassette di frutta che uso come libreria, puoi trovare FOAM, DU, PRIVATE, RVM, OJODEPEZ, FOTO8 e numerosi magazine che spesso guardo nei momenti di calma. Gli dedico il tempo dovuto, magari con un bicchiere di vino e discutendone con qualcuno.


E on line, come ti informi? Cosa guardi?

Web, lo ritengo il cantastorie contemporaneo ed è il mio primo strumento di lavoro per trovare notizie, che poi a tavolino studio e valuto se possano funzionare come concept di reportage, o mi aiuta a capire se le news che ho trovato sono già state documentate.
Ritengo che in questo periodo dove i giornali si sfogliano e si riempiono sempre di più di pubblicità una soluzione giusta sia quella di proporre riviste in formato pdf, ti porto l’esempio di PUNCTUM o FOAM.


Per quali pubblicazioni vorresti tanto lavorare e per quali hai lavorato con grande soddisfazione?
E per quale pubblicazione web ?


Ho lavorato per diverse testate, ma apprezzo moltissimo quelle che hanno una buona gestione dell’impaginato e non hanno bisogno di tagliare le immagini per esigenze di griglia. Trovo assurdo che la composizione fotografica decisa dall’autore sia trasformata per esigenze editoriali. Aspirazione di molti sono le grandi testate come il Newsweek o il Time, irraggiungibili e lontane dalle cose che ho prodotto e che produco. Francamente penso di parlare a nome di un gran numero di fotografi dicendo che la speranza sia di pubblicare i lavori fatti che non hanno mai trovato spazio perchè lavori scomodi, storie di sfigati o storie troppo di nicchia.
Credo che il web oggi sia una buona vetrina per farsi conoscere, ma per ora non ho fatto proposte ancora a nessun web magazine; mi piacerebbe confrontarmi con chi lo fa.


Anche fare una foto per 'Voices from Italy' è un assignment.
Quali sono le differenze nel processo di lavoro, dalla richiesta alla consegna... del tuo
ultimo assignment, ad esempio, e del lavoro che svolgi per 'Voices from Italy'?


'Voices from Italy' ritengo sia una di queste vetrine, un bel progetto al quale (anche se con ritardi) ho preso parte. Ogni richiesta/assignment strutturata in diversi temi era stimolante e obbligava a fermarsi cercando di capire quale immagine poteva rappresentare la mia regione.


Le immagini che hai dato, sembrano le risposte perfette a delle domande a trabocchetto. I temi People, Habitat, Landscape, Common Place per testimoniare la personalità di uno spazio geografico sono molto ampi....

Calza bene la parola personalità, ti dirò che spesso mi sono interrogato, penso come gli altri, su come potevo tradurre in immagine una parola, le prime tre erano facili ma Common Place e Miracolo Italiano erano ostacoli, sfide che ho affrontato non lavorando sul territorio ma sul mio archivio che avevo dietro con me in India.


Quando voices era on line con solo un tema, non riuscivo a cogliere la personalità  della regione e del fotografo.
Ora (dicembre 2010) con 5 immagini , anche la singola immagine prende più  significato...il filo rosso (della regione di provenienza) inizia come a raccontare una storia.


Qualche anno fa ho fotografato Maria Lai, un’artista sarda. Mi raccontava di un’installazione che da giovane aveva fatto nel suo paese, un filo che correva di casa in casa unendo gente, luoghi, spazi, per creare un momento, un ricordo. Mi piace pensare che voices ci abbia chiesto di fare la stessa cosa, toccava ad ognuno di noi tendere il filo rosso per definire un’identità.




Il lavoro di fotografo necessita di una grande dose di improvvisazione. E come in ogni disciplina, la migliore improvvisazione deve anche basarsi su grande tecnica e su regole e schemi. Vuoi svelarci alcune delle tue regole o schemi?

Improvvisazione! Preferisco pensare all’unione di corpo anima e mente, questo è uno dei principi del karate e credo valga anche in fotografia. Ho adottato come regola un insegnamento datomi da una persona che oggi non c’è più, impara la tecnica e poi dimenticala per essere libero di esprimere te stesso!




Mi è capitato di stampare una tua immagine per una collettiva di Luz e ero felice di trovare un file a 16 bit. La definizione del tuo file era ottima e anche la lavorazione. Tieni tutti i file a 16 bit? Da quando e perché?

Ho molta cura del mio archivio, questa è un’altra regola che mi sono dato quando ho deciso che la fotografia sarebbe stato il mio lavoro. Oggi non scendo più in cantina a stampare, ma ho imparato ad utilizzare credo, nel migliore dei modi, i programmi che abbiamo a disposizione per gestire questi 01 impalpabili, quindi traggo vantaggio anche dei 16 bit.
Ho avuto molti maestri che nel tempo hanno ‘ceduto’ il loro sapere ad un giovane che credeva e tuttora crede in quello che sta facendo, c’è stato chi mi ha insegnato anche questo!

Lorenza Orlando, responsabile The Photographers' room

sabato 5 marzo 2011

STEFANO SERRA: FACCIO IL FOTOGRAFO PERCHE' MI PIACE, di Arianna Sanesi

A.S: Chi è Stefano Serra e perchè fa il fotografo?

S.S: Ho iniziato a fotografare per curiosità. Come a molti è accaduto, mio padre aveva una reflex che non usava. 
Dopo una vacanza trascorsa a fotografare con una usa e getta, mi sono detto "perchè non uso la reflex di mio padre che tanto lui non usa!!"
Ecco come ho iniziato!
Poi è nata una grande passione. Mai avrei pensato che ne sarebbe nata una professione!
Faccio il fotografo perchè mi piace. Mi piace fotografare qualsiasi cosa. In particolare le persone e le emozioni.





Il tuo lavoro si alterna tra "fuori dall'Italia" e "in Italia": in cosa è diverso lavorare fuori o dentro?

In Italia c'è una grande consapevolezza, da parte della gente, della funzionalità delle immagini. Quindi è molto difficile fotografare per strada la gente senza incorrere a domande e richieste varie.
Sicuramente lecite. Anche se la questione della privacy ha sconfinato, a mio parere erroneamente, anche nella fotografia. Così anche se in misura minore, anche in Europa e in Nord America.
Mentre in paesi esotici c'è più ingenuità rispetto alla fotografia, quindi diciamo che è più semplice fotografare a zonzo.





Secondo te cosa si mostra troppo e cosa troppo poco dell'Italia attraverso la fotografia (ti faccio questa domanda perchè ho visto che abbiamo lavori sugli stessi argomenti ma completamente diversi, bello!)?

Si mostra troppo gossip e sport. A mio parere mancano completamente delle belle inchieste fotografiche dove è il fotografo a dettare tempi e modi. In genere trovo che invece il fotografo è il più delle volte didascalico, cioè realizza delle fotografie che accompagnano il pezzo scritto.
Ovviamente non mancano dei bravi fotografi che realizzano o sono in grado di realizzare inchieste fotografiche. Mancano gli spazi per accogliere tali lavori. O forse alla gente non interessa e quindi le riviste non creano spazi! Mah chi lo sa!





E della Sardegna?

Della Sardegna si parla poco e solo d'estate per il turismo, le spiagge e i festini di Berlusconi!
D'altronde non credo arrivi a 2 milioni di abitanti. E' piccolina!
Peccato.



Fotografare la tua regione ti dà una responsabilità particolare?

Si molto. Ho cercato di essere onesto. Quando parlavo con amici e parenti per comprendere cosa poter fotografare per il progetto "Voices from Italy" spesso mi venivano proposti i classici clichè della Sardegna! Spiagge, nuraghe, feste..ecc Per mostrare la bellezza della regione ovviamente. Come se finalmente ci fosse qualcuno ne parlasse. Ho percepito proprio la sensazione di esclusione che si vive in Sardegna.




In Voices, ti rende speciale il fatto di essere entrato "in corsa"..cosa ti ha convinto? E adesso che è finito, cosa vorresti dire?

L'ho ritenuta un'oppurtunità per fare qualcosa che magari non avrei fatto in questo momento. Grazie.
Ora vorrei continuare e approfondire i temi proposti per farne un libro!



Una foto che ti rende felice (già fatta, o ancora da fare)

Mio figlio Jacopo che sorride!!




Arianna Sanesi, fotografa e membro fondatore di Micro
MERCOLEDì 9 MARZO ALLE ORE 19 PRESSO AREA PERGOLESI, VIA PERGOLESI 8, MILANO, PRESENTIAMO IL PROGETTO "VOICES FROM ITALY",
VI ASPETTIAMO!
inviateci una mail a microphotographers@gmail.com per confermare la vostra presenza



giovedì 3 marzo 2011

SIMONE PEROLARI: DAI TURISTI ALLE PERSONALITA', UNA STRADA PER LA FOTOGRAFIA, di Katia Bianco

Come hai cominciato a fotografare? Cosa ti ha attratto?
Come mai hai deciso di emigrare a Parigi?

       
Ho cominciato a fotografare quasi per caso. Volevo fare un'esperienza fuori da Biella e da Torino, dove abitavo e cosi ho trovato un annuncio di un fotografo che cercava fotografi per villaggi turistici per la stagione estiva, ho risposto e dopo un colloquio informale sono partito quell'estate per fare il fotografo nei villaggi (a quel tempo avevo 22 anni).
Non sapendo nulla di fotografia e di come fotografare (non avevo una passione per la fotografia, per me era qualcosa che mi attirava per il solo fatto che montare un rullino era per me un'esperienza nuova).
Al villaggio, di notte mi veniva insegnato il funzionamento della macchina fotografica e di giorno venivo mandato nella corrida del villaggio per esercitarmi e lavorare. Dopo una settimana, il mio capo mi disse che sarebbe partito, che sarei rimasto solo una settimana e che poi sarebbe arrivato un altro fotografo per gestirmi e aiutarmi. Pensavo scherzasse invece parte, io rimango nel panico un attimo poi mi metto a riflettere e a lavorare.
Inizio, la settimana va bene, raddoppio l'incasso e continuo la stagione anche in un altro villaggio turistico. Questa e' stata la gavetta, una pratica incredibile, ogni giorno facevamo fuori circa 50 rullini.
Da li parto perchè non ho più un lavoro ed un po' perche fare il fotografo mi piace, ma non so come fare. Cerco un fotografo tra Torino e Milano per fare l'assistente, ma riniziano i casini, per trovarne uno (anche gratis) passa un anno e mezzo, tra telefonate e incontri con fotografi ogni giorno, ma da tutti sentivo la stessa risposta: non abbiamo bisogno, ed erano tempi buoni, adesso sarebbe la follia.
Dopo un anno e mezzo per caso vado da Mauro Raffini (fotografo professionista piemontese, importante) che mi riceve per sentire che volevo, lui aveva già un assistente, ma in quel periodo iniziava l'era X, quella del digitale e per fortuna in quei giorni gli avevano chiesto un lavoro proprio in digitale, di cui lui non sapeva molto e chiede a me se sapevo qualcosa di computer, non sapevo di digitale ma conoscevo i computer: mi prese per quel lavoro e poi mi tenne come assistente. Rimasi con lui da assistente per 5 anni, durante i quali mi ha insegnato il mestiere del fotografo.
Ho poi deciso di provare a cambiare aria perchè anche se già facevo il  fotografo non vedevo che le cose per me miglioravano e ho provato ad andare fuori. Ormai da Mauro avevo appreso molte cose ed era ora di tornare a camminare da solo. Scelsi Parigi, li conoscevo un fotografo amico, Paolo Verzone, che mi ha aiutato e mi ha dato dei consigli per muovermi a Parigi.






Quali sono state le soddisfazioni e le amarezze di questo mestiere?

Una soddisfazione e' stata la pubblicazione  di una mia foto per la campagna di Amnesty International sui bambini invisibili: una sola foto, ma molto d'effetto, che è stata utilizzata per molto tempo.
  

Qual è il tipo di fotografia che ti affascina di più?
Nelle tue foto c'è un uso predominante del colore che cosa pensi che aggiunga questa scelta alle tue foto?


Mi affascina il reportage in bianco e nero, quello vecchio, quello ancor fatto di pellicola e grana, quello che ora non si vede più purtroppo; prima di venire a vivere a Parigi (ormai sono qui da 3 anni e mezzo) fotografavo solo in bianco e nero a pellicola (per i miei lavori personali, gli altri in digitale), poi andavo nelle redazione dei giornali e sentivo sempre la solita storia: bello ma hai del colore?
Il problema e' che io non riuscivo a vedere le foto nella macchina se avevo un rullino a colori, assurdo, ma è realtà.
Dal mio arrivo a Parigi mi sono messo a usare quasi solo digitale ed è da quel momento che ho prodotto quasi unicamente foto a colori. Diciamo che l'uso del digitale mi ha fatto vedere le foto a colori, che con la pellicola vedevo solo il bianco e nero.






Osservando le fotografie c'è una predominanza dei ritratti. Questa forma è voluta? Credi che ti serva a entrare in contatto con quella persona?
Il momento dello scatto specialmente nei ritratti è un vero e proprio rapporto tra il fotografo e il soggetto. Come vivi questo rapporto e ci sono confini e coinvolgimenti diversi a seconda dei contesti?


I ritratti sono un lavoro commerciale, dal momento che preferisco il reportage, ma il mercato ti cataloga e per vivere si cerca di far diverse cose, di reportage sociale non si vive se non arrivi ad alti livelli e poi forse non basterebbe, allora faccio ritratti.
Mi piace comunque fare ritratti, e' strano fare un ritratto, perchè ti studi già prima la situazione o almeno te la immagini e poi cambia tutto luogo, persona ecc ecc.
Dipende sempre da chi ti trovi di fronte: normalmente anche i grossi personaggi che ho fotografato sono in generale stati gentili. Il problema di far ritratti è il tempo, perchè questi personaggi non hanno mai tempo, oppure anche se hanno tempo i loro addetti stampa te lo riducono.
A me piacerebbe seguire un personaggio tutta una giornata, così che possano venir fuori dei ritratti non posati e molto vari. Ma chi ti da questa possibilità?




Che cosa contiene un evento sportivo rispetto ad un altro tipo di evento da te raccontato?

Gli eventi sportivi mi interessano perchè mi interesso molto di  sport ed e' per questo che li seguo alla mia maniera: non si vendono facilmente ma cerco di trovare una chiave di lettura diversa, molte volte poco vendibile, ma personalmente più soddisfacente da vedere che le solite immagine fisse sullo sportivo ed il loro gesto atletico.





Osservando il reportage sull'Argentina mi sembra di capire che il tema è il riciclo. Come ti è venuta questa idea ?

Nel reportage sugli ex cartoneros in Argentina sono stati importanti i contatti ed una conoscenza.
Quando preparo un lavoro, un viaggio di lavoro, cerco di sapere il più possibile su cosa sto andando a fare. In quel caso mi ero preparato cercando tutto quello fatto su di loro e su come arrivare a loro per entrare direttamente nella situazione.
La cosa migliore è stata che non mi aspettavo di avere dal governo argentino una persona che mi accompagnasse dentro la "villa", favela argentina, per realizzare il mio reportage; nonostante questo contatto in questi posti ho trovato difficoltà, infatti manca una seconda parte, che spero di poter fare presto.





Hai una struttura narrativa che ripeti nei tuoi reportages?

No non ho una struttura fissa, di solito guardo quello che succede, l'ambiente che ho di fronte,  e cerco di conoscere la situazione e le persone: poi a seconda del contesto in cui mi trovo valuto prima di fotografare o tirar fuori la macchina fotografica,  perchè avere la macchina o scattare una foto a volte  è come avere una pistola.

Katia Bianco, antropologa





sabato 26 febbraio 2011

EL MIRADOR: OSTINATO NON RIEDUCABILE. INTERVISTA A MAURO CORINTI, di Luca Ciambellotti


L.C: Mauro Corinti, trent'anni, abruzzese di nascita, studi di fotografia a Roma e attualmente diviso tra l'Italia e il Messico per un progetto, come dici tu, di “lunga durata”. Come è stato fotografare per Voices from Italy la tua terra d'origine in un momento in cui la tua attività professionale si svolge soprattutto in Messico?
 
M.C: In verità sono nato e cresciuto in una piccola frazione nelle Marche, a pochi chilometri dall'Abruzzo. Da casa riuscivo a vedere i rilievi delle montagne Gemelle e la catena montuosa del Gran Sasso all'orizzonte. Un territorio affascinante, simile a un paesaggio alpino che degrada fino al mare, mescolandosi con le Marche e generando lungo quella linea immaginaria una sorta di tradizione comune, tipica delle realtà di confine. Alla fotografia invece mi sono avvicinato dopo aver lavorato per alcuni anni a progetti nei settori dell'immigrazione e del disagio sociale a Roma e nel bolognese. Solo dopo quest'esperienza ho avuto l'esigenza di uno sfogo, di dominare le emozioni o semplicemente quella sensazione chiamiamola di burnout. Dopo gli studi alla Scuola Romana di Fotografia ho deciso di pianificare un viaggio lontano da tutto quello che già conoscevo, una sorta di master intensivo e così è nato il progetto in Messico.
Per quanto riguarda invece il progetto Voices per la regione Abruzzo, proposto dal collettivo MICRO, ho accettato subito con molto entusiasmo e una sincera voglia di riscoprire il mio paese, sviluppando una visione fotografica specifica di una regione che stava appena uscendo dal dramma del terremoto. Per me la parte più complicata senza dubbio è stata trovare, fra i temi assegnati, una linea guida che non cadesse nel banale, perché credo che il compito di un osservatore attento sia proprio di trovare una chiave di lettura, una giusta interpretazione.





Lasciare l'Italia è stato un impulso o una scelta professionale ragionata? E in Messico a cosa stai lavorando?


Le scelte impulsive in qualche modo avviano quel meccanismo che obbliga a riflettere per trovare una soluzione utile, dunque sono passato dall'impulsività a una soluzione ragionata. Il progetto in Messico è stato ispirato dal desiderio di realizzare un lavoro indipendente su un Paese che suscita in me da sempre grande curiosità. Ho iniziato a scavare per conoscerlo meglio. Il Messico è considerato uno dei classici luoghi "complicati" fotograficamente parlando, ultimamente anche a causa dell'incredibile ondata di violenza generata della guerra tra i cartelli della droga nel nord del Paese, ma anche e soprattutto per una mala reputazione che con il tempo ha associato il mezzo fotografico a un concetto scomodo e pericoloso, dunque il paese non si lascia scoprire molto volentieri. Ho scelto quindi di lavorarci partendo dall'inizio, ovvero dallo Stato del Chiapas, conosciuto forse solo per i movimenti militarizzati delle EZLN e per le numerose comunità indigene Maya presenti. Ho trascorso gli ultimi due anni collaborando con diverse riviste e quotidiani messicani, alcune testate italiane, trattando e proponendo temi d'attualità. In costante evoluzione e ricerca fotografica mi sono sforzato di delineare i contorni e il carattere della regione, e posso dire con soddisfazione di essere giunto quasi alla conclusione di questo lungo ed estenuante lavoro.





Pensi sia più facile lavorare all'estero che in Italia?

Credo sia difficile lavorare in generale! In Italia la questione si complica quando si cerca di proporre qualcosa di nuovo. Il Paese è ancora in una fase transitoria, con l'editoria a cavallo fra cartaceo e multimediale; si fatica a smuovere quel meccanismo di giornalismo partecipativo capace di sostenere finanziariamente progetti fotografici indipendenti. Il panorama fotografico italiano è talentuoso e giovane, nonostante l'insieme dei meccanismi selettivi che generano una catena infinita di ostacoli che ogni fotografo deve essere in grado di superare per continuare nel proprio lavoro. All'estero il metodo di valutazione è differente, forse meno superficiale... Resta sempre complicato competere e inserirsi professionalmente, tuttavia sono riuscito a ritagliarmi un mio spazio nell'editoria messicana ed è stato soprattutto gratificante offrire un'interpretazione personale nella quale gli editori si sono riconosciuti.


Che importanza ha il reportage nel tuo lavoro, come lo vedi e come lo vivi?


Il reportage rappresenta un efficace linguaggio in continua evoluzione stilistica. Nel lavoro lo vivo in maniera positiva, grazie anche alle numerose applicazioni che abbiamo a disposizione oggi offre davvero la possibilità di produrre e proporre documentari di qualità





Vorrei che mi dicessi, anche attraverso una metafora, cosa è per te la fotografia...


Passione e testardaggine! Credo siano sufficienti questi due termini, dove la passione sta per l'anima che ti spinge ad avvicinarti a questo mestiere, accettando spesso tanti, troppi compromessi e la testardaggine per l'incorreggibile ostinazione che continua a spingerti in questa direzione.



Il progetto Voices from Italy si è da poco concluso con la pubblicazione della sezione dal tema: "The Italian Miracle" di cui tu, per l'Abruzzo, hai dato un'interpretazione velatamente ironica: la sede di un partito politico, la Lega nord, ospitata in un container. Suggestivo come miracolo italiano, non trovi? 

Da troppo tempo l'Italia è l'interpretazione velatamente ironica di se stessa. Assistiamo quotidianamente alle contraddizioni di una politica teatrale proiettata in mondovisione senza la minima vergogna. Ho scelto quella foto perché oltre a rispecchiare l'animo spartano della Lega nord rappresenta anche il paradosso della crescita del consenso elettorale nel centro-sud italia: sostegno a progetti “italici” per l'indipendenza padana; un partito italiano secessionista che riesce a riunire e rappresentare la maggioranza del paese!




 

Puoi fornirci qualche anticipazione sui tuoi prossimi lavori
 
Ho diversi progetti in cantiere, da sviluppare sia in Italia che in Abruzzo ma per ora sono impegnato nella conclusione del lavoro in Messico. Organizzare, rielaborare, editare la raccolta di immagini realizzate negli ultimi due anni, cercando di descrivere attraverso il ritratto contemporaneo del Chiapas, inteso come "la porta di ingresso" del Messico, gli aspetti e le problematiche presenti nel Paese.

Luca Ciambellotti, giornalista e blogger 

 


mercoledì 16 febbraio 2011

ANDREA BOSCARDIN: THEY CALLED ME VANDAL, di Andrea Delle Case

A.D:  Stesso nome, stesso anno di nascita, stesse abitudini alimentari, abbiamo condiviso anche lo stesso datore di lavoro, per un periodo… Parlami di quello che hai fatto dopo l’esperienza in agenzia, del collettivo Micro e del progetto Voices from Italy?
                                                                                                                                 A.B: Andrea, 1976, vegetariano: sì, direi che abbiamo un po’ di cose in comune, alcune migliori di altre, per fortuna, certe ce le siamo lasciate alle spalle tutti e due.
Mi è sempre piaciuto occuparmi di news e per certe cose è stata una buona scuola, ma dopo le agenzie, tra lunghi e brevi periodi - in tre anni ne ho girate diverse - ho capito che quell’esperienza aveva bisogno di un’evoluzione.
Ho percepito la necessità di un cambiamento dopo il mio primo viaggio nei Balcani nel 2008; che tra l'altro ha coinciso con la fine del mio primo rapporto di collaborazione con un’agenzia.
Per due settimane ho viaggiato su un furgone attraversando Bosnia, Kosovo e Serbia con un'amica regista e con la sua troupe: per la prima volta, dopo tanto tempo, ho ricominciato a lavorare utilizzando un linguaggio di nuovo personale, non più dettato dalle regole della  singola foto, da pubblicare sul quotidiano, ma da quelle di una storia.
Micro è nato un giorno di circa un anno fa quando Arianna ed Elisabetta (Arianna Sanesi e Elisabetta Cociani, ndr.) mi hanno chiesto di partecipare a un'idea che avevano da tempo, quella di un collettivo fotografico. Diverse provenienze e diverso background ma una comune visione di fotografia e soprattutto la voglia di lavorare insieme a un progetto nuovo: questo è ciò che vedo in Micro.
Voices, che coinvolge oltre a noi altri 17 fotografi, è un ottimo esempio.





Religione, immigrazione e bombolette spray, se riducessi il tuo lavoro fotografico a queste tre voci, cosa diresti? Raccontami scelte ed evoluzioni di una ricerca.

L'appartenenza a una comunità con le sue regole, i suoi meccanismi, il suo linguaggio la sua storia. Micro mondi: se non ne fai parte molte volte non li puoi capire e quindi risulti estraneo come anche loro talvolta si sentono di fronte a tutto il resto. E tanto più è forte il distacco, tanto più forte è il senso di comunità. A volte questo produce effetti positivi o negativi: si può trasformare in ribellione, frustrazione, oppure in attaccamento a fede e fratellanza, in ogni caso è qualcosa di veramente umano e reale, soprattutto in una città come Milano, dove sono nato e cresciuto.  
Ho iniziato nel 2002 con i writers perché era il mondo dal quale provenivo io stesso, quello che vivevo quotidianamente. In seguito l'interesse crescente per il fotogiornalismo mi ha portato a concentrarmi anche su altre tematiche, come per esempio l'immigrazione. Mi sono chiesto quale potesse essere il modo migliore per entrare in contatto con le varie comunità di immigrati della mia città e la risposta l'ho travata nei luoghi di culto. Ho capito che erano un punto di aggregazione e ritrovo ideale per stranieri, quindi un buon inizio.
Uno degli ultimi lavori è quello sugli scout islamici italiani, dopo tanti anni di lavoro e di ricerca sulla comunità islamica la fiducia è tale che ormai mi trovo a lavorare come fotografo direttamente per loro.






Lombardia: cosa significa raccontarla per immagini? Cosa significa raccontare il luogo dove si vive e si lavora? Te lo chiedo pensando ai  tuoi colleghi di progetto, molti dei quali risiedono in regioni diverse da quelle che rappresentano.

Per me la Lombardia è soprattutto Milano, essere “Milanese” ed essere “Lombardo” sono due cose diverse: ci sono posti di questa regione che io definisco "profondo nord", che conosco anche abbastanza bene ma nei quali, comunque, anche io mi sento uno straniero. Non so che rapporto abbiano i miei colleghi con le loro regioni, io personalmente mi ritengo fortunato perché rappresento la regione dove vivo e lavoro e dove ogni giorno ho nuove idee


Quindi è Milano la tua piattaforma di lavoro per Voices?

Sì, perché  ci vivo e ogni giorno ricevo stimoli, idee e spunti di lavoro e poterli restituire all'esterno per me vuol dire dar voce a una parte del mio lavoro a cui tengo molto; Voices mi da questa possibilità: raccontare in modo critico e personale quello che mi è più vicino.
Ho scelto di concentrarmi sulla mia città non per comodità ma perché penso che Milano racchiuda in se l'essenza della Lombardia ma che allo stesso tempo la stia lentamente perdendo, cercandone ostinatamente una propria. 





Recentemente alla produzione fotografica hai affiancato anche una multimediale. Da cosa nasce quest'esigenza/scelta? Come le affronti? Viaggiano parallelamente o sono l'approfondimento l'una dell'altra?

Da circa un anno e mezzo sto lavorando, parallelamente alla produzione fotografica, e la realizzazione di video multimediali in cui mescolo foto, video e audio.
I primi risultati in tal senso, nati per curiosità e voglia di sperimentare, mi hanno subito rivelato che avevo un rapporto quasi naturale e spontaneo a questo tipo di linguaggio e soprattutto mi hanno aiutato a progettare il mio lavoro in modo diverso: montando anche semplici slide show di foto mi rendevo conto che stavo visualizzando le storie che volevo raccontare già come sequenza di fotogrammi e non singole immagini. Successivamente, ma sempre utilizzando attrezzatura fotografica, mi sono avvicinato al video catturandolo come se fosse "fotografia in movimento" per dare più dinamismo al montaggio e l'audio (non solo parlato ma musica, suoni, rumori) Partendo da una base fotografica, ma andando oltre attraverso il montaggio, fondo questi tre elementi e il risultato è un linguaggio nuovo che ritengo più completo, più adatto ai tempi e allo sviluppo futuro del nostro lavoro, che avrà più spazio su internet che sulla carta stampata.


Ai temi stabiliti per il progetto di Pilkinton, quale aggiungeresti? Puoi anche rispondere con una fotografia.

Se potessi aggiungere un tema sarebbe sicuramente: A day in the life. Si tratta di un progetto che porto avanti da diversi anni, è il titolo di alcuni miei lavori nonché di una sezione del mio sito e ora è diventato anche un Blog (su cui però sto ancora lavorando), sul quale pubblicherò solo materiale foto/video inerente a questo tema.
 

Per completare e spiegare meglio il mio concetto di "a day in the life" se lo ritieni opportuno non metterei una foto (che comunque è una bellissima proposta) ma un video, nel caso ti sembrasse una buona idea è questo:

 
Andrea Delle Case: ricercatore iconografico RCS periodici