lunedì 6 settembre 2010

ARIANNA SANESI: LA FOTOGRAFIA E' UN RAGAZZO CHE NON TI MOLLA MAI...di Danilo Deninotti

D.D: Chi è Arianna Sanesi e come mai è diventata fotografa? Voglio dire, è la risposta che davi già nei temi “Cosa voglio fare da grande” delle elementari, o è stata una folgorazione, una casualità, una scelta, una passione diventata lavoro?

A.S: Sul chi sono io, al momento ho idee piuttosto confuse e rischierei di dire fesserie. Di sicuro non mi basta il percorso fatto fin qui. La mia battuta è sempre stata “la fotografia è un ragazzo che non ti molla mai” (del resto paragono anche il mio rapporto con Milano a una storia d’amore), per cui presumo che sì, ci sia stato un innamoramento, così come le inevitabili crisi - del resto se ci pensi è tremenda l’idea di non potersi liberare di un fidanzato scomodo. Posso dire che sia stata una scelta che ha finito per intrappolarmi, forse. L’Arianna seienne voleva fare la domatrice di delfini, l’undicenne la guardia forestale.




Chi ti ha messo per la prima volta una macchina fotografica in mano? Rompevi le scatole come tutti i bambini ai tuoi genitori per fare tu le foto delle vacanze, o c'è stata una persona che ti ha introdotta nel mondo della fotografia e ti ha inculcato la passione?

La prima macchina seria, una Pentax K1000, me l’ha regalata mia madre quando avevo 15 anni. Qualche anno prima c’era stata un’amica di famiglia, Ivana, che mi aveva colpito perché appassionata di fotografia. Ma detto tutto ciò, credo piuttosto che il mio amore sia nato dal guardare le immagini sui giornali che avevo in casa, fin da piccolissima, piuttosto che dal farle. Le foto di famiglia, a giudicare dalla mia espressione perennemente imbronciata, erano soprattutto subite temo.


Che tipo di formazione hai seguito e quali sono stati, e sono, i tuoi modelli di riferimento? E che tipo di gavetta hai fatto?

Ho fatto casino (si può dire?) come in molti ambiti della mia vita: per cui mi sono incaponita a laurearmi in storia della fotografia per quanto non fosse un insegnamento che faceva parte della mia facoltà, ho fatto un corso all’Università Popolare di Prato, fatto l’assistente al Tpw (e devo dire che mi si è aperto un mondo, anche se ne ero e ne sono tuttora un’osservatrice esterna, un cane sciolto, come diceva un mio collega) e studiato al Bauer. Ma ho anche studiato altro: traduzione, insegnamento. Gavetta infinita, proprio nel senso che ancora non è finita. Smetto in questi giorni di fare l’assistente per un noto fotografo, e con questo sono riuscita a comprare la mia prima macchina di proprietà, fai tu. Il mio grande rimpianto è non aver studiato scienze naturali, l’aver vissuto la questione fotografia in maniera totalizzante. È stata un'ingenuità.


Qual è stato il tuo esordio, il tuo primo servizio? E l'ultimo? E nel mezzo, cosa è successo e quali sono stati i tuoi passi nel mondo della fotografia professionale (collaborazioni, richieste di servizi, proposte andate in porto e porte sbattute in faccia)?

Se per servizio si intende la prima cosa che ho finito, è stato un lavoro concettuale per il diploma al Bauer. Ho praticamente costretto una ventina di coppie a baciarsi davanti allo schermo in panne di un televisore, detto così fa ridere, ma il risultato era bello. Peccato che in seguito me ne sia dimenticata, di come si potesse fare fotografia anche così. Per cui per anni ho rincorso ambizioni da fotogiornalista senza grande successo e finalmente adesso ho smesso di rincorrere le cose. L’ultimo commissionato è stata una serie di ritratti di persone comuni per Vanity Fair, insieme alla mia socia di sempre, Elisabetta Cociani. Al momento mi sono messa a digiuno dal meccanismo ricerca-questua-dis/interesse perché stavo diventando matta. Magari le porte sbattessero, io trovo difficoltà anche solo a farmi aprire (leggi: rispondere alle mail)! Il discorso è: se non vado bene, amici come prima; ma se non ho nemmeno accesso all’esser vista con serietà, va beh... poi si sa, il mondo è pieno di fotografi, eccetera.


Che tipo di fotografia ti interessa e cerchi di fare? Sul tuo sito, il tuo portfolio è diviso in “esseri umani” e “storie” – è questo che fai, cercare e inseguire delle storie e fissare su pellicola delle immagini, dei momenti e dei volti che hanno qualcosa da raccontare a chi si troverà a guardare la foto?




Provo a far emozionare le persone, o farle pensare. Cerco di comunicare quello che è sospeso, invisibile. Di sicuro è una sfida. Mi interessa di più un certo tipo di fotografia lenta e riflessiva in questo momento, per quanto ammiri moltissimo chi fa foto più "veloci". Si potrebbe dire che gran parte del mio lavoro abbia natura documentaria. Bisogna capirsi sul significato che si dà alla parola “storie”: a volte le storie sono anche nella propria testa, e quelle sì che sono difficili da comunicare. Quando la fotografia scivola verso il concettuale, se non si è attenti e consapevoli, si rischia il ridicolo, o il cliché. Ritengo che con quella di carattere fotogiornalistico invece il rischio più grosso sia la noia, l’usura.


Quindi narrazione e story telling sono importanti per te in un linguaggio come quello fotografico?

Di sicuro. Ma lo storytelling è un pozzo da esplorare, il racconto umano è fatto di tante cose, a me la fotografia non basta, né quando la guardo, né quando la faccio. Credo fermamente che si debba  prima di tutto sapere (conoscere) molto altro per comunicare qualcosa che abbia una sostanza, e che  a volte servano altri mezzi e perché no, più persone.




Come nasce un tuo servizio? Hai delle tematiche che ti interessano, che preferisci, che ti ossessionano e che vuoi a tutti i costi raccontare? C'è un minimo comune denominatore che collega i tuoi lavori?

Il minimo comune denominatore... sono io. Mi ci sono voluti anni per venire a patti con questo, e riemergere di nuovo attraverso le foto che facevo. Curiosamente, o forse no, i miei “servizi” nascono da tutto fuorché dalla fotografia. Sono una spugna, in costante ascolto di quello che ho intorno: libri, articoli, conversazioni, musica, e tanta radio. A volte basta una frase e si avvia come una valanga dentro di me. Ma sono lentissima, per cui ci sono idee che cullo da anni e delle quali ancora non ho mai parlato con nessuno. E siccome sono discontinua, forse è discontinuo anche il mio lavoro.


Qual è il lavoro che consideri il migliore tra quelli che hai fatto, o quello a cui sei più legata?

Direi LU. Credo sia un nuovo punto di partenza per me come fotografa. È la prova costante che mi ricorda che non sono fotogiornalista, ma che posso raccontare le cose a modo mio. Stacca tutto il resto con una bella falcata, e va bene così. Quando farò il nuovo sito, sarà una delle poche cose che resterà in piedi. Oltretutto averlo messo in un libro mi ha aiutata a capire che fine volevo facesse. Prima di LU però c’è Yellow and Blue. Con quello mi sono detta: sei libera.




Quali sono le difficoltà del fare la fotografa? Con che cosa ci si scontra quotidianamente? Si riesce a campare di sola fotografia e a pagarci le bollette?

Personalmente non ci riesco, ma si può riuscire. Tralasciamo le lamentele, che tanto sono cose che sanno tutti, ma veramente tutti, se si ha un minimo di onestà intellettuale. Per quanto mi riguarda la fotografia è un’ossessione, una malattia, e questo è il bello e il brutto. Permea qualsiasi momento della mia vita. Ultimamente ho insegnato italiano agli stranieri, è stata una tale boccata d’aria che credo sarebbe una buona idea specializzarsi in quello, e lo farò. Poi si vedrà.


Parliamo del collettivo MICRO e del progetto Voices from ITALY, di cui sei co-fondatrice. Perché avete sentito il bisogno di creare un collettivo? E qual è lo scopo del progetto?

Quando ho scoperto il Fifty States Project, ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto fare la stessa cosa in Italia, e una volta tanto sono stata fulminea a contattare Pilkington. Non è certo la prima volta che con gli altri proviamo a mettere in piedi qualcosa sull’Italia, ma ogni volta si scontrava con difficoltà oggettive dovute all’organizzazione, la partecipazione, la comprensione. La formula di Pilkington mi è sembrata ideale, e lui ha avuto la generosità di darci l’ok immediatamente. Lo scopo ideale sarebbe quello di portare i fotografi italiani al confronto con i progetti fatti negli altri pesi, costringerli a scoprirsi con le loro forze e debolezze. Provare a presentare l’Italia in un altro modo. Di certo l’idea di base è fare qualcosa di internazionale.
MICRO nasce da premesse simili, io parlo per me: ho sempre sentito il bisogno di condivisone, ma è cosa rara. Ed è difficile. Non è un caso che Micro venga allo scoperto coinvolgendo altre diciassette persone. Voglio dire, avremmo anche potuto farlo tutto noi, ma non abbiamo voluto, non avrebbe avuto alcun senso (oltre alla considerazione ovvia che sarebbe stato diverso dagli altri, ma anche più gestibile). Io vedo MICRO come il quartier generale a cui fare metaforicamente ritorno, ovunque vada.





All'interno di Voices From Italy ti è toccata la Toscana, ovviamente perché sei toscana di nascita. Ci sono regioni italiane – penso al Friuli, al Piemonte, alla Basilicata – per cui l'appartenenza è radicale e radicata, ed è forte e viscerale anche per chi magari è andato poi ad abitare altrove, tu come la vivi la tua appartenenza regionale?

Domanda spinosa. Rischio di farmi ancora più nemici di quanti me ne sia già fatti col mio statement, che comunque non era negativo, ci tengo a dire. Partiamo dall’assunto che la Toscana a suo modo è un luogo comune: bella da morire, ricca, democratica, si mangia bene. Una delle frasi che si sentono di più è “Come si sta bene qui, non si sta bene da nessuna parte!” Diciamo che per me non è così, io sto bene anche altrove. Alcuni dei miei migliori amici sono lì, i miei invecchiano, e quindi ora ci torno più spesso rispetto a qualche anno fa. Ma la sensazione da cane sciolto rimane, e del resto non raccolgo pacche sulle spalle ogni volta che dico che abito a Milano, e che per giunta mi piace. Mi viene anche detto che nel mio essere caparbia, polemica, anticlericale, a tratti eccentrica, io sono toscanissima. È più che probabile. C’è una cosa che voglio dire e che non ho detto nello statement però, perché era intraducibile: quello che detesto di più è il cattocomunismo e quello che più mi manca è la schiacciata che fanno alcuni fornai di Prato.




Danilo Deninotti, lavora nel mondo della comunicazione

3 commenti:

  1. Grazie Danilo per la bella intervista e un grazie soprattutto ad Arianna per aver avuto l'idea di fare questo progetto in Italia ed averci creduto sin dall'inizio.
    Andrea

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  2. "il racconto umano è fatto di tante cose, a me la fotografia non basta, né quando la guardo, né quando la faccio. Credo fermamente che si debba prima di tutto sapere (conoscere) molto altro per comunicare qualcosa che abbia una sostanza, e che a volte servano altri mezzi e perché no, più persone.".
    Proposito grandioso.
    s

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  3. Un grazie a Danilo per la bella intervista. Le parole di Arianna che più mi fanno pensare alle sue fotografie sono: "Provo a far emozionare le persone, o farle pensare. Cerco di comunicare quello che è sospeso, invisibile". E' da anni che seguo i suoi progetti e da sempre le sue fotografie mi emozionano!

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