sabato 26 marzo 2011

"FUORI MISURA": IL RAPPORTO UOMO-AMBIENTE NELLA FOTOGRAFIA DI CLAUDIA CORRENT, di Edoardo Frittoli

E.F: Rapporto uomo territorio in cui è l’ambiente a prevalere, mentre l’elemento umano sembra quasi una parte del territorio stesso, un “dettaglio”. E’ vero?

C.C: Si sicuramente! In alcune foto voglio che sia l'ambiente a essere il punto principale della scena, anche se l'elemento umano rimane comunque e deve rimanere.




Dalle tue immagini si direbbe che la crescita e la trasformazione di certi spazi urbani di periferia sembrano addirittura avere soffocato il ruolo primario della popolazione, diventando il territorio stesso l’elemento principale delle tue fotografie.

Credo che ci sia un problema di disconoscimento tra l'uomo e l'ambiente in cui vive.
Mi spiego: non c'è neanche a Bolzano, città definita ecocompatibile , una partecipazione attiva nel pensare e costruire certe periferie. Non parlo di antipaesaggi, ma di scontro tra persone e cose, una non comprensione del territorio che si abita.
Quindi quello che rimane, alla fine, sono le strutture, le case e i topoi  classici dell'architettura. Le persone in effetti scompaiono, diventando piccole e non è un caso.



Quanto incide nella scelta dei soggetti la componente multietnica e multiculturale?

Vengo da una terra che per eccellenza è multiculturale,  lavoro a contatto con  ragazzi di diverse regioni del mondo come educatore in un centro giovani, e quindi l'incontro tra lingue, persone e  culture mi appartiene. Raccontare le persone è raccontare quel pezzo di mondo e quindi mi interessano i ritratti proprio per questo.


Sei stata direttamente influenzata  dal dualismo linguistico e culturale della tua regione?

Si sicuramente! É impossibile non rimanere coinvolti dal dualismo vivendo in Alto Adige!
Tutto è separato, dai cartelli italiani e cartelli tedeschi nelle strade di montagna, alle scuole divise a seconda del gruppo linguistico e così via.
I 150 anni di Unità italiana sono stati in questi giorni motivo di discussione tra la popolazione italiana e tedesca, quindi l'Alto Adige è fortemente caratterizzato da questo. Ma d'altro canto il discorso dell'identità non è mai assolutamente dato e questa è la particolarità di questa regione.




Le espressioni  rilassate nei volti delle famiglie ritratte nei dittici del quartiere Firmian lasciano intravedere una speranza di un’integrazione futura?

Mi auguro di si! Intervistando  le persone è emerso che oltre a  dei disagi che riguardano scelte provinciali  (troppe famiglie, mancanza di strutture) sono contenti di vivere in un nuovo quartiere e in nuove case e sono fiduciosi che nel tempo questo tipo di disagi verranno sistemati.
Bolzano oltretutto è una città piccola e ricca, Firmian non è assolutamente paragonabile a altre periferie italiane. Qui abbiamo un controllo sul disagio e contributi che spaziano dalla casa (affittata o comprata) a contributi di disoccupazione e  del minimo vitale.
Ci vuole solo tempo e altri servizi sono già in fase di progettazione.
Firmian è interessante anche per questo: una realtà che rispecchia la regione.
La divisione si ritrova in un quartiere multietnico e vario. Anche se da questo tipo di dialettica può emergere forse una coesione e  una riappropriazione del paesaggio.




Nel tuo portfolio di immagini di viaggio, la prospettiva sembra cambiare: dall’indagine socio-culturale ad un’attenzione al dettaglio con un tocco ironico “kitsch” che può ricordare Martin Parr.
Due stili e due anime della stessa autrice?


Direi di si, dipende da quello che mi interessa di volta in volta.
Adoro l'ironia di Parr nell'analizzare i costumi e la società e il rapporto delle persone con il tempo libero, le vacanze e altro. Cerco di riprodurre quando riesco un tipo di sguardo similare.
Dall'altra però mi interessa anche uno sguardo più attento alle trasformazioni sociali e culturali e quindi un'indagine che vada verso questa direzione.


Edoardo Frittoli, photoeditor di Panorama Economy

martedì 22 marzo 2011

FABRIZIO GIRALDI: INTERVISTA A UN DIVORATORE DELLA VISIONE, di Lorenza Orlando

L.O: Sono circa otto mesi che dobbiamo fare questa intervista e non ci riusciamo ... hai lavorato molto nell'ultimo anno?

F.G: Troppi mesi per rispondere a qualche domanda! Il 2010 è stato clemente, ho fatto più di quanto mi aspettassi, mi sono spostato molto per lavoro anche in paesi che non speravo, vedi Giappone e nell’ultimo periodo India, portando a casa molto materiale, e molto materiale per me vuol dire molto esercizio.


Conosci nella rivista FOAM la rubrica "on my mind": viene chiesto a vari curatori, galleristi, direttori di agenzia, editori di descrivere la fotografia che hanno più spesso avuto in mente nell'ultimo periodo. La rivolgo a te.

FOAM, rivista che ammiro moltissimo per i suoi contenuti e per la cura che dimostrano nell’accostare immagine e grafica, quindi come potrai capire da questa introduzione conosco la rubrica ‘on my mind'.
Gyorgy Kepes dedicò un libro alla “grammatica e sintassi della visione”, cito questa frase perchè sono un grande ‘divoratore della visione’, oltre a guardare ed editare le mie immagini analizzo quotidianamente quelle degli altri per sviluppare una sorta di critica visiva, per essere severo con i miei lavori e capire l’immagine contemporanea.
Ciononostante però spesso le immagini più ricorrenti nella mia mente sono quelle dei quadri ottocenteschi, dove composizione, luci e forme sono così ben pensate e calibrate che non serve la penna rossa per evidenziare l’errore.. non c’è!




Quali magazine di fotografia leggi? Quali ti piacciono? Quando li leggi?

Non sono un gran lettore ma amo ‘leggere’ immagini, quindi da ogni luogo che visito porto via con me magazine fotografici, li ritengo uno sguardo più ampio sul mondo dell’immagine a differenza dei libri monografici.
Nelle cassette di frutta che uso come libreria, puoi trovare FOAM, DU, PRIVATE, RVM, OJODEPEZ, FOTO8 e numerosi magazine che spesso guardo nei momenti di calma. Gli dedico il tempo dovuto, magari con un bicchiere di vino e discutendone con qualcuno.


E on line, come ti informi? Cosa guardi?

Web, lo ritengo il cantastorie contemporaneo ed è il mio primo strumento di lavoro per trovare notizie, che poi a tavolino studio e valuto se possano funzionare come concept di reportage, o mi aiuta a capire se le news che ho trovato sono già state documentate.
Ritengo che in questo periodo dove i giornali si sfogliano e si riempiono sempre di più di pubblicità una soluzione giusta sia quella di proporre riviste in formato pdf, ti porto l’esempio di PUNCTUM o FOAM.


Per quali pubblicazioni vorresti tanto lavorare e per quali hai lavorato con grande soddisfazione?
E per quale pubblicazione web ?


Ho lavorato per diverse testate, ma apprezzo moltissimo quelle che hanno una buona gestione dell’impaginato e non hanno bisogno di tagliare le immagini per esigenze di griglia. Trovo assurdo che la composizione fotografica decisa dall’autore sia trasformata per esigenze editoriali. Aspirazione di molti sono le grandi testate come il Newsweek o il Time, irraggiungibili e lontane dalle cose che ho prodotto e che produco. Francamente penso di parlare a nome di un gran numero di fotografi dicendo che la speranza sia di pubblicare i lavori fatti che non hanno mai trovato spazio perchè lavori scomodi, storie di sfigati o storie troppo di nicchia.
Credo che il web oggi sia una buona vetrina per farsi conoscere, ma per ora non ho fatto proposte ancora a nessun web magazine; mi piacerebbe confrontarmi con chi lo fa.


Anche fare una foto per 'Voices from Italy' è un assignment.
Quali sono le differenze nel processo di lavoro, dalla richiesta alla consegna... del tuo
ultimo assignment, ad esempio, e del lavoro che svolgi per 'Voices from Italy'?


'Voices from Italy' ritengo sia una di queste vetrine, un bel progetto al quale (anche se con ritardi) ho preso parte. Ogni richiesta/assignment strutturata in diversi temi era stimolante e obbligava a fermarsi cercando di capire quale immagine poteva rappresentare la mia regione.


Le immagini che hai dato, sembrano le risposte perfette a delle domande a trabocchetto. I temi People, Habitat, Landscape, Common Place per testimoniare la personalità di uno spazio geografico sono molto ampi....

Calza bene la parola personalità, ti dirò che spesso mi sono interrogato, penso come gli altri, su come potevo tradurre in immagine una parola, le prime tre erano facili ma Common Place e Miracolo Italiano erano ostacoli, sfide che ho affrontato non lavorando sul territorio ma sul mio archivio che avevo dietro con me in India.


Quando voices era on line con solo un tema, non riuscivo a cogliere la personalità  della regione e del fotografo.
Ora (dicembre 2010) con 5 immagini , anche la singola immagine prende più  significato...il filo rosso (della regione di provenienza) inizia come a raccontare una storia.


Qualche anno fa ho fotografato Maria Lai, un’artista sarda. Mi raccontava di un’installazione che da giovane aveva fatto nel suo paese, un filo che correva di casa in casa unendo gente, luoghi, spazi, per creare un momento, un ricordo. Mi piace pensare che voices ci abbia chiesto di fare la stessa cosa, toccava ad ognuno di noi tendere il filo rosso per definire un’identità.




Il lavoro di fotografo necessita di una grande dose di improvvisazione. E come in ogni disciplina, la migliore improvvisazione deve anche basarsi su grande tecnica e su regole e schemi. Vuoi svelarci alcune delle tue regole o schemi?

Improvvisazione! Preferisco pensare all’unione di corpo anima e mente, questo è uno dei principi del karate e credo valga anche in fotografia. Ho adottato come regola un insegnamento datomi da una persona che oggi non c’è più, impara la tecnica e poi dimenticala per essere libero di esprimere te stesso!




Mi è capitato di stampare una tua immagine per una collettiva di Luz e ero felice di trovare un file a 16 bit. La definizione del tuo file era ottima e anche la lavorazione. Tieni tutti i file a 16 bit? Da quando e perché?

Ho molta cura del mio archivio, questa è un’altra regola che mi sono dato quando ho deciso che la fotografia sarebbe stato il mio lavoro. Oggi non scendo più in cantina a stampare, ma ho imparato ad utilizzare credo, nel migliore dei modi, i programmi che abbiamo a disposizione per gestire questi 01 impalpabili, quindi traggo vantaggio anche dei 16 bit.
Ho avuto molti maestri che nel tempo hanno ‘ceduto’ il loro sapere ad un giovane che credeva e tuttora crede in quello che sta facendo, c’è stato chi mi ha insegnato anche questo!

Lorenza Orlando, responsabile The Photographers' room

sabato 5 marzo 2011

STEFANO SERRA: FACCIO IL FOTOGRAFO PERCHE' MI PIACE, di Arianna Sanesi

A.S: Chi è Stefano Serra e perchè fa il fotografo?

S.S: Ho iniziato a fotografare per curiosità. Come a molti è accaduto, mio padre aveva una reflex che non usava. 
Dopo una vacanza trascorsa a fotografare con una usa e getta, mi sono detto "perchè non uso la reflex di mio padre che tanto lui non usa!!"
Ecco come ho iniziato!
Poi è nata una grande passione. Mai avrei pensato che ne sarebbe nata una professione!
Faccio il fotografo perchè mi piace. Mi piace fotografare qualsiasi cosa. In particolare le persone e le emozioni.





Il tuo lavoro si alterna tra "fuori dall'Italia" e "in Italia": in cosa è diverso lavorare fuori o dentro?

In Italia c'è una grande consapevolezza, da parte della gente, della funzionalità delle immagini. Quindi è molto difficile fotografare per strada la gente senza incorrere a domande e richieste varie.
Sicuramente lecite. Anche se la questione della privacy ha sconfinato, a mio parere erroneamente, anche nella fotografia. Così anche se in misura minore, anche in Europa e in Nord America.
Mentre in paesi esotici c'è più ingenuità rispetto alla fotografia, quindi diciamo che è più semplice fotografare a zonzo.





Secondo te cosa si mostra troppo e cosa troppo poco dell'Italia attraverso la fotografia (ti faccio questa domanda perchè ho visto che abbiamo lavori sugli stessi argomenti ma completamente diversi, bello!)?

Si mostra troppo gossip e sport. A mio parere mancano completamente delle belle inchieste fotografiche dove è il fotografo a dettare tempi e modi. In genere trovo che invece il fotografo è il più delle volte didascalico, cioè realizza delle fotografie che accompagnano il pezzo scritto.
Ovviamente non mancano dei bravi fotografi che realizzano o sono in grado di realizzare inchieste fotografiche. Mancano gli spazi per accogliere tali lavori. O forse alla gente non interessa e quindi le riviste non creano spazi! Mah chi lo sa!





E della Sardegna?

Della Sardegna si parla poco e solo d'estate per il turismo, le spiagge e i festini di Berlusconi!
D'altronde non credo arrivi a 2 milioni di abitanti. E' piccolina!
Peccato.



Fotografare la tua regione ti dà una responsabilità particolare?

Si molto. Ho cercato di essere onesto. Quando parlavo con amici e parenti per comprendere cosa poter fotografare per il progetto "Voices from Italy" spesso mi venivano proposti i classici clichè della Sardegna! Spiagge, nuraghe, feste..ecc Per mostrare la bellezza della regione ovviamente. Come se finalmente ci fosse qualcuno ne parlasse. Ho percepito proprio la sensazione di esclusione che si vive in Sardegna.




In Voices, ti rende speciale il fatto di essere entrato "in corsa"..cosa ti ha convinto? E adesso che è finito, cosa vorresti dire?

L'ho ritenuta un'oppurtunità per fare qualcosa che magari non avrei fatto in questo momento. Grazie.
Ora vorrei continuare e approfondire i temi proposti per farne un libro!



Una foto che ti rende felice (già fatta, o ancora da fare)

Mio figlio Jacopo che sorride!!




Arianna Sanesi, fotografa e membro fondatore di Micro
MERCOLEDì 9 MARZO ALLE ORE 19 PRESSO AREA PERGOLESI, VIA PERGOLESI 8, MILANO, PRESENTIAMO IL PROGETTO "VOICES FROM ITALY",
VI ASPETTIAMO!
inviateci una mail a microphotographers@gmail.com per confermare la vostra presenza



giovedì 3 marzo 2011

SIMONE PEROLARI: DAI TURISTI ALLE PERSONALITA', UNA STRADA PER LA FOTOGRAFIA, di Katia Bianco

Come hai cominciato a fotografare? Cosa ti ha attratto?
Come mai hai deciso di emigrare a Parigi?

       
Ho cominciato a fotografare quasi per caso. Volevo fare un'esperienza fuori da Biella e da Torino, dove abitavo e cosi ho trovato un annuncio di un fotografo che cercava fotografi per villaggi turistici per la stagione estiva, ho risposto e dopo un colloquio informale sono partito quell'estate per fare il fotografo nei villaggi (a quel tempo avevo 22 anni).
Non sapendo nulla di fotografia e di come fotografare (non avevo una passione per la fotografia, per me era qualcosa che mi attirava per il solo fatto che montare un rullino era per me un'esperienza nuova).
Al villaggio, di notte mi veniva insegnato il funzionamento della macchina fotografica e di giorno venivo mandato nella corrida del villaggio per esercitarmi e lavorare. Dopo una settimana, il mio capo mi disse che sarebbe partito, che sarei rimasto solo una settimana e che poi sarebbe arrivato un altro fotografo per gestirmi e aiutarmi. Pensavo scherzasse invece parte, io rimango nel panico un attimo poi mi metto a riflettere e a lavorare.
Inizio, la settimana va bene, raddoppio l'incasso e continuo la stagione anche in un altro villaggio turistico. Questa e' stata la gavetta, una pratica incredibile, ogni giorno facevamo fuori circa 50 rullini.
Da li parto perchè non ho più un lavoro ed un po' perche fare il fotografo mi piace, ma non so come fare. Cerco un fotografo tra Torino e Milano per fare l'assistente, ma riniziano i casini, per trovarne uno (anche gratis) passa un anno e mezzo, tra telefonate e incontri con fotografi ogni giorno, ma da tutti sentivo la stessa risposta: non abbiamo bisogno, ed erano tempi buoni, adesso sarebbe la follia.
Dopo un anno e mezzo per caso vado da Mauro Raffini (fotografo professionista piemontese, importante) che mi riceve per sentire che volevo, lui aveva già un assistente, ma in quel periodo iniziava l'era X, quella del digitale e per fortuna in quei giorni gli avevano chiesto un lavoro proprio in digitale, di cui lui non sapeva molto e chiede a me se sapevo qualcosa di computer, non sapevo di digitale ma conoscevo i computer: mi prese per quel lavoro e poi mi tenne come assistente. Rimasi con lui da assistente per 5 anni, durante i quali mi ha insegnato il mestiere del fotografo.
Ho poi deciso di provare a cambiare aria perchè anche se già facevo il  fotografo non vedevo che le cose per me miglioravano e ho provato ad andare fuori. Ormai da Mauro avevo appreso molte cose ed era ora di tornare a camminare da solo. Scelsi Parigi, li conoscevo un fotografo amico, Paolo Verzone, che mi ha aiutato e mi ha dato dei consigli per muovermi a Parigi.






Quali sono state le soddisfazioni e le amarezze di questo mestiere?

Una soddisfazione e' stata la pubblicazione  di una mia foto per la campagna di Amnesty International sui bambini invisibili: una sola foto, ma molto d'effetto, che è stata utilizzata per molto tempo.
  

Qual è il tipo di fotografia che ti affascina di più?
Nelle tue foto c'è un uso predominante del colore che cosa pensi che aggiunga questa scelta alle tue foto?


Mi affascina il reportage in bianco e nero, quello vecchio, quello ancor fatto di pellicola e grana, quello che ora non si vede più purtroppo; prima di venire a vivere a Parigi (ormai sono qui da 3 anni e mezzo) fotografavo solo in bianco e nero a pellicola (per i miei lavori personali, gli altri in digitale), poi andavo nelle redazione dei giornali e sentivo sempre la solita storia: bello ma hai del colore?
Il problema e' che io non riuscivo a vedere le foto nella macchina se avevo un rullino a colori, assurdo, ma è realtà.
Dal mio arrivo a Parigi mi sono messo a usare quasi solo digitale ed è da quel momento che ho prodotto quasi unicamente foto a colori. Diciamo che l'uso del digitale mi ha fatto vedere le foto a colori, che con la pellicola vedevo solo il bianco e nero.






Osservando le fotografie c'è una predominanza dei ritratti. Questa forma è voluta? Credi che ti serva a entrare in contatto con quella persona?
Il momento dello scatto specialmente nei ritratti è un vero e proprio rapporto tra il fotografo e il soggetto. Come vivi questo rapporto e ci sono confini e coinvolgimenti diversi a seconda dei contesti?


I ritratti sono un lavoro commerciale, dal momento che preferisco il reportage, ma il mercato ti cataloga e per vivere si cerca di far diverse cose, di reportage sociale non si vive se non arrivi ad alti livelli e poi forse non basterebbe, allora faccio ritratti.
Mi piace comunque fare ritratti, e' strano fare un ritratto, perchè ti studi già prima la situazione o almeno te la immagini e poi cambia tutto luogo, persona ecc ecc.
Dipende sempre da chi ti trovi di fronte: normalmente anche i grossi personaggi che ho fotografato sono in generale stati gentili. Il problema di far ritratti è il tempo, perchè questi personaggi non hanno mai tempo, oppure anche se hanno tempo i loro addetti stampa te lo riducono.
A me piacerebbe seguire un personaggio tutta una giornata, così che possano venir fuori dei ritratti non posati e molto vari. Ma chi ti da questa possibilità?




Che cosa contiene un evento sportivo rispetto ad un altro tipo di evento da te raccontato?

Gli eventi sportivi mi interessano perchè mi interesso molto di  sport ed e' per questo che li seguo alla mia maniera: non si vendono facilmente ma cerco di trovare una chiave di lettura diversa, molte volte poco vendibile, ma personalmente più soddisfacente da vedere che le solite immagine fisse sullo sportivo ed il loro gesto atletico.





Osservando il reportage sull'Argentina mi sembra di capire che il tema è il riciclo. Come ti è venuta questa idea ?

Nel reportage sugli ex cartoneros in Argentina sono stati importanti i contatti ed una conoscenza.
Quando preparo un lavoro, un viaggio di lavoro, cerco di sapere il più possibile su cosa sto andando a fare. In quel caso mi ero preparato cercando tutto quello fatto su di loro e su come arrivare a loro per entrare direttamente nella situazione.
La cosa migliore è stata che non mi aspettavo di avere dal governo argentino una persona che mi accompagnasse dentro la "villa", favela argentina, per realizzare il mio reportage; nonostante questo contatto in questi posti ho trovato difficoltà, infatti manca una seconda parte, che spero di poter fare presto.





Hai una struttura narrativa che ripeti nei tuoi reportages?

No non ho una struttura fissa, di solito guardo quello che succede, l'ambiente che ho di fronte,  e cerco di conoscere la situazione e le persone: poi a seconda del contesto in cui mi trovo valuto prima di fotografare o tirar fuori la macchina fotografica,  perchè avere la macchina o scattare una foto a volte  è come avere una pistola.

Katia Bianco, antropologa