giovedì 12 agosto 2010

L'ARCHITETTURA DELL'ANIMA NEL PAESAGGIO DI CLAUDIO SABATINO di Chiara Caratti

La casa di Claudio e sua moglie Simona parla immediatamente della Campania: offrono cibo napoletano e in soggiorno è appesa un’enorme e preziosa veduta di Napoli di Gabriele Basilico.


C.C: Abiti a Milano da oltre dieci anni, ti mancano Pompei e Napoli?

C.S: Senz’altro. Sono i posti in cui sono vissuto per molti anni a cui sono molto legato. Ma, grazie a Milano, la mia vita è cambiata in meglio, perché è una città aperta, che offre molte possibilità e spunti. A me ha dato l’opportunità di incontrare e coltivare rapporti umani che mi hanno fatto crescere molto.


Strana quest’affermazione per un uomo del Sud. Milano è spesso vista come una città diffidente e chiusa.

Per me non è stato così. Certamente Napoli ha tante attrattive, basti pensare al clima e al cibo! Napoli però è anche una città dura e caotica. E’ viva, ma è un posto molto complesso in cui vivere.


Lo dimostri, infatti, nella tua foto della campionessa di pugilato.

Faccio una premessa: mi considero un fotografo di paesaggio, ma anche il ritratto è un tema che mi appartiene molto. Non mi piace ragionare a compartimenti stagni perchè siamo sempre nell’ambito della visione.
Riguardo a Marzia, sono stato subito colpito dalla dolcezza del suo sguardo, in contraddizione con il suo ruolo di campionessa mondiale di pugilato e in contrasto con la violenza che questo sport comporta. Lei è la rappresentazione di quanto sia difficile vivere a Napoli. La palestra è di suo padre ed è visibilmente scarna,  accessoriata dell’indispensabile. Lei è la dimostrazione di come si possa diventare se stessi nonostante questa pochezza di mezzi, portando il minimo possibile al suo massimo.


Mi dicevi che tu sei un fotografo di paesaggio. Quando hai capito di esserlo?

Mi sono laureato in architettura. Ho sempre desiderato fare l’architetto e ho sempre immaginato che da grande avrei fatto questo. E con gioia e passione ho studiato per diventarlo. La fotografia è subentrata proprio in questi anni, prima come necessità tecnica per esigenze di studio, poi per la passione per l’immagine che cresceva anche grazie ad Alberto Ferlenga, il docente con cui mi sono laureato, che era riuscito a creare intorno a sé un gruppo di studenti interessati a discipline diverse, tra cui cinema e fotografia. Molto importante è stato quindi l’incontro in quegli anni con altri fotografi con i quali ho condiviso i primi passi nel mondo della fotografia. In quella pseudo-factory si sono creati collegamenti molto interessanti per la mia formazione e la mia passione per l’architettura è quindi sfociata naturalmente nella fotografia.




Le tue foto riflettono quest’approccio apparentemente razionale: sono nitide, frontali, per nulla estetizzate. Spesso fanno parte di ricerche composte da foto seriali: stesso tipo di oggetto fotografico, rappresentato con lo stesso punto di vista e con la stessa tecnica. A te cosa emoziona di un paesaggio?

Mi emoziona il paesaggio della trasformazione, mi emoziona il paesaggio urbano quando si manifesta con la sua complessità e con le sue contraddizioni: le grandi metropoli come Las Vegas, Tokyo, Shangai… Mi attraggono la loro energia in continua trasformazione, dove il tempo e gli spazi del quotidiano di ognuno si sovrappongono creando abitudini e habitat diversi. All’opposto, mi emoziona il ‘paesaggio minimo’, quello poco disegnato, che è in periferia ma è comunque molto vicino al centro della città (per disegnato intendo che è poco disegnato urbanisticamente e quindi spontaneo). Il paesaggio del bordo della città, delle zone di confine. 





In senso più generale comunque, sono lontano dal tipo di fotografia che deve emozionare a tutti i costi e dev’essere sensazionale. Mi riconosco più nel fotografo che tenta di capire con un’indagine e che si annulla di fronte a ciò che ritrae, piuttosto che in un fotografo che scatta delle immagini che hanno la presunzione di spiegare agli altri ciò che è l’esperienza umana. Non credo neanche al fotoreporter che scatta cogliendo l’attimo decisivo, perché  credo di più nel valore del progetto fotografico: leggere e studiare i luoghi prima di andare a fotografarli, capire i temi da approfondire e svilupparne una serie mirata. Spesso ricomincio le mie ricerche fotografiche partendo da alcune immagini che ho scattato in passato e che funzionano da promemoria, perché contengono elementi interessanti che voglio analizzare meglio.
Ho quest’approccio per quasi tutti i miei progetti: declino la stessa modalità di lavoro su diversi oggetti. Proprio come fa un architetto, che sviluppa la sua metodologia progettuale ed estetica su luoghi differenti.


Quali per esempio?

Nella ‘Mano del Santo’ ho fotografato le statue votive della provincia di Napoli, tutte dallo stesso punto di vista: frontale, con ‘il santino’ al centro, con un chiaro riferimento alla fotografia tedesca.  In questo modo il fotografo si annulla portando l’attenzione sull’operazione concettuale. La Bellezza della foto diventa quindi secondaria rispetto all’importanza del progetto. Paradossalmente, avendo scelto questa impostazione, potrei chiedere a un’altra persona di scattare la foto! Volevo puntare l’attenzione sugli edifici che si svelano dietro al Santo, così che la statua votiva diventa un traguardo ideale per guardare il paesaggio sociale circostante.
In un altro progetto in cui ho ritratto invece luoghi archeologici, come Pompei, Baia e Bacoli, ho approfondito la relazione tra spazi archeologici e costruzioni recenti. E con lo stesso presupposto di metodo applicato nella ‘Mano del Santo’ ho cercato di evidenziare come il paesaggio moderno tenda a schiacciare e a soffocare quello antico.





Prima hai citato la bellezza di una fotografia. Per te, cos’è una bella foto?

Rispondo citando una riflessione di una figura determinante nella storia della fotografia che è Robert Adams: se la funzione dell'atto fotografico diventa quella di documentare la forma sottesa al caos apparente del reale, una bella fotografia è un’immagine capace di svelare la testarda bellezza dei luoghi, e di ricreare un nuovo ordine estetico capace di mettere in relazione il fotografo con il mondo circostante.


Ho scoperto che insegni fotografia e hai tenuto corsi in Brera, alla Naba, al Politecnico e in altre strutture. Quali sono le curiosità dei tuoi studenti?

La loro curiosità è spesso rivolta al metodo per costruire un linguaggio. Ed è una curiosità che posso soddisfare solo parzialmente perché ognuno di loro deve trovare la propria strada. Io posso solo trasmettere la mia tecnica, il mio metodo, ma mi devo fermare qui. Gli studenti il più delle volte affrontano questo percorso secondo una dinamica perfettamente in linea con i tempi di oggi: hanno la difficoltà di mettersi alla prova per sperimentarsi e conoscersi, per ottenere un risultato che si vedrà sul lungo termine. Dall’altro lato però, hanno un grande entusiasmo di cambiare la loro vita grazie alla fotografia, e questo mi gratifica molto.

Chiara Caratti, photoeditor di Cosmopolitan





martedì 10 agosto 2010

WORK!

Il sito è sempre più ricco, i fotografi stanno facendo sentire la loro voce.
In più, in molti ci stanno aiutando a intervistare i protagonisti di Voices: anche a loro va un sentito grazie.

lunedì 2 agosto 2010

SE TU FOSSI MICHELE PALAZZI di Sonja Fagioli

S:F: Voices from Italy, titolo di questi tempi  utopico, irrisorio...
Ci sono dei momenti in cui è meglio non parlare? Tu quando gridi? E quando taci?





M.P: Ormai (grazie a internet) chiunque può comunicare con un pubblico, ma contemporaneamente diventa molto più difficile trovare persone che parlano avendo qualcosa da dire.
Questo è uno dei motivi che mi fa apprezzare il silenzio.
Sopratutto nel fotogiornalismo la comunicazione è il passaggio finale di un lavoro di ricerca


Essere un fotografo è più una dannazione o un privilegio?  Farlo in Italia? Perché lo fai?




Ritengo questo mestiere uno dei lavori più liberi e stimolanti che si possano fare. Ma vivere facendo il fotografo, data la grande competizione e la presenza crescente di fotoamatori, è sempre più difficile. Il nostro paese sta attraversando una fase critica e singolare, una crisi sociale i cui sintomi sono evidenti, più nascoste le cause. Il lavoro del fotogiornalista è un tentativo di lettura e di analisi degli avvenimenti. Nel mio caso quello che mi ha portato a fare questo mestiere è semplicemente la curiosità.
La possibilità di conoscere realtà distanti da me e che non avrei mai potuto conoscere facendo un altro tipo di mestiere.


Dietro all'obiettivo ti senti protetto, guidato?




La macchina fotografica mi permette di trovarmi in luoghi nuovi, a contatto con persone diverse ma uguali a me, sicuramente mi dà un senso di protezione emotivo e dà anche uno scopo alla mia presenza in determinate situazioni, ma più di tutto mi permette di entrare il più possibile nell'intima realtà delle cose, mi guida verso la ricerca di una verità, che ovviamente non potrà essere mai una realtà assoluta, ma che sento come mia.


Riesci ad avvicinarti in punta di piedi e a strappare espressioni in sessantesimi e millesimi di secondo, cosa ti ferma cosa ti fa fare un passo in dietro?




Non è facile dirlo, sicuramente la prima cosa che mi chiedo prima di iniziare un progetto è il mio scopo, e se questo scopo può danneggiare le persone fotografate, cerco sempre di evitare la volgarità sia nelle foto sia nel mio comportamento. Non amo privare di dignità le persone che fotografo, purtroppo spesso può capitare di essere scorretti anche senza accorgersene.


Cosa vorresti non avere fotografato?

Spesso i rimpianti sui miei scatti sono in relazione all'utilizzo che ne viene fatto e ai compromessi che bisogna accettare per poter far diventare la passione un mestiere.


Hai mai la sensazione di déjà vu quando ritrai?

Probabilmente ogni mia foto potrebbe essere un déjà vu, anche quando io per primo non me ne rendo conto.
La mia personalità e il mio passato spesso interagiscono con la realtà che sto fotografando, ed è proprio questa interferenza che mi stimola a continuare la mia ricerca.


Mi dai i nomi di tre fotografi e li descrivi con un paio di aggettivi?

Sally Mann, eterna adolescente
Jessica Dimmock, disperata ricercatrice di verità
Leonie Purchas, folle e introspettiva
Non è una coincidenza che ho scelto tre donne (di cui due molto giovani).
Anche se sono meno numerose dei fotografi maschi riescono sempre ad emergere grazie alla loro estrema sensibilità e a uno sguardo sul mondo mai banale.


Mi definisci in poche parole di colori, immagini ecc. la tua esperienza scolastica dal nido all'accademia? Un guru?

Durante l'adolescenza ho cercato strade diverse dai miei coetanei. Scoprire la fotografia è stata una benedizione, mi ha insegnato a conoscermi ed a cercare sempre risposte personali in un percorso di vita in cui credere.
I miei maestri sono stati tanti, impossibile elencarli tutti. Frequentare la Scuola Romana di Fotografia è stato un enorme stimolo per me, confrontarmi con professori come Massimo Siragusa è stato sicuramente un privilegio, senza scordare il lungo periodo da assistente di Lorenzo Pesce a cui devo molto.


Nelle tue foto di persone respinte in luoghi caotici, l'osservatore risucchiato dal punto di fuga, ormeggia come una bolla nella livella, ci sente la leva di una bilancia e la forza di una bussola.




Quello che maniacalmente cerco è una verità dettata dai momenti intimi della vita, quei momenti in cui la solitudine oltre che malinconia può portare anche a una grande lucidità e consapevolezza. Ovviamente questa è una ricerca che non si potrà mai dire compiuta... Nel frattempo faccio il possibile per comprendere sapendo che le mie ricerche probabilmente non miglioreranno il mondo, ma forse potranno aiutarmi a continuare un percorso verso una maggiore consapevolezza.


Conosci la poesia di Cecco Angiolieri S'i' fosse foco, arderei 'l mondo?  Sognando: "Se tu fossi ....  faresti...."

Amo questa poesia, forse non c'è migliore risposta di quella data dallo stesso poeta...
Se dovessi farla mia, userei la metafora di Giorgio Gaber: "E allora va a finire che se fossi Dio, io mi ritirerei in campagna come ho fatto io..."
Forse se fossi Michele cercherei disperatamente di rimanere fedele a me stesso ed ai miei ideali... facile a dirsi...

Sonja Fagioli, ricercatrice iconografica di Gente